Di passaggio di Jenny Erpenbeck

Ho appena letto un libro bellissimo.
Dopo un libro bello e divertente, quello di Mabanckou (QUI la recensione), ecco un libro bellissimo ma senza alcun divertimento, quello di Erpenbeck. Si passa da un francese di origine africana (Congo) ad una tedesca nata nella DDR. Eppure l'inizio del libro di Erpenbeck ha un qualcosa del libro di Mabanckou: in Black Bazar il protagonista parla di quando lui e i suoi amici, ancora ragazzi, ancora in Congo, prima di una partita di calcio o di un approccio con le ragazze andavano dallo stregone a domandare che fare e le sue risposte erano una serie di precetti così complicati che era sicuro non riuscire a rispettarli.
Stessa cosa all'inizio del romanzo di Erpenbeck:
Quando una ragazza si sposa, non deve cucirsi da sé l'abito nuziale. Non solo: in casa della sposa l'abito nuziale non potrà proprio essere confezionato. Lo si dovrà cucire altrove, badando a che non un solo ago si spezzi durante la lavorazione. La stoffa per confezionare un abito nuziale non va strappata, bisogna tagliarla. Se durante il taglio si commette un errore, non si può più utilizzare lo stesso pezzo di stoffa, bisogna comprare un'altra striscia del medesimo tessuto. La sposa non potrà farsi regalare le scarpe per le nozze dallo sposo, deve comprarsele con gli spiccioli che da tempo sta mettendo da parte.
E avanti così, con prescrizioni che riguardano tutti, sposa, sposo, parenti, amici, per tre pagine.

Per Mabanckou il ricordo dei consigli dello stregone marca una differenza fra l'allora e l'adesso, fra l'Africa e Parigi, serve a spiegare da dove viene il protagonista e dove è arrivato.
Per Erpenbeck questi non sono ricordi personali o di sentito dire: sono evidentemente frutto di ricerche storiche, come buona parte del libro, e stanno lì a dirci come un tempo sapessero quanto è difficile avere una vita felice, quanto facile che la vita venga scossa da disgrazie, personali o comunitarie, o semplicemente venga spazzata via.

L'autrice ci offre un romanzo corale: ogni capitolo ci racconta uno dei personaggi che abitano o hanno abitato una piccola porzione di terra, in riva ad un lago, non molto distante da Berlino.
Tante sono le persone, in tempi diversi. E' un modo per poter raccontare la storia tedesca attraverso le voci private di persone che, nello stesso luogo fisico, hanno vissuto le vicende tedesche, dalla prima guerra mondiale fino ai nostri giorni.
C'è l'architetto che, in quel terreno, edifica la casa che verrà abitata da tanti altri. Ha combattuto nella prima guerra, è riuscito a passare indenne alla seconda guerra e all'invasione russa ma dopo pochi anni dalla fine della guerra verrà espulso dalla DDR e i suoi beni confiscati.
Giusto per dare un assaggio del libro, ecco un brano che in poche righe riassume una vita di un uomo, una vita di un popolo:
Aveva lavorato tutta la vita per trasformare il denaro in qualcosa di reale, dapprima aveva comprato metà di quel terreno per costruirvi la casa, più tardi l'altra metà con il pontile e il capanno in riva al lago, tutto il suo denaro, guadagno di un duro lavoro, si era radicato lì, lì aveva letteralmente messo radici, sotto forma di querce, ontani e pini, investire denaro - quando i tempi sono agitati - voleva dire all'epoca investirlo in valori solidi: questo aveva imparato, ma nel frattempo, purtroppo, a ciò che aveva imparato era venuta meno la realtà, nel disordine fiabesco che i russi avevano lasciato in eredità ai tedeschi, chi possedeva un pezzo di terra invece che un tappeto volante era semplicemente da compiangere.

Due voci sono della famiglia di ebrei del pezzo di terra confinante a quello dell'architetto: uno, Ludwig, è il proprietario del terreno che nel 1936 lascia la Germania per il Sudafrica. L'altra voce è di sua nipote, Doris, figlia della sorella,  che in quel terreno ha passato le vacanze della sua infanzia e insieme a lui e al nonno in quel terreno, in riva al lago, ha piantato un salice. Questi due capitoli sono forse i più belli, più difficili, più densi: la voce di Ludwig è a metà fra la Germania e il Sudafrica, fra quando lui era lì e quando, adesso, lui è in salvo ma il resto della sua famiglia no. La scrittrice alterna paragrafi di una terra e dell'altra, di un tempo passato e presente, e il lettore è spiazzato, bisogna leggere più di una volta per rientrare negli spostamenti spaziali e temporali: l'effetto sul lettore ricrea, almeno in parte, lo spaesamento del personaggio, il suo essere salvo ma privo della famiglia.
Hermine a Arthur, i suoi genitori.
Lui, Ludwig, il primogenito.
Sua sorella Elisabeth, maritata con Ernst.
La loro figlia, sua nipote, Doris.
Poi sua moglie Anna.
E infine i bambini: Elliot e la piccola Elisabeth, che porta lo stesso nome della sorella.
Con questo elenco inizia il capitolo di Ludwig e viene ripetuto, come una preghiera, come un volersi ricordare una famiglia che non c'è più, un mondo che è stato travolto.

La voce di Doris ricorda i tempi passati in riva al lago. Ma lei è dentro un piccolo ripostiglio buio, in una casa abbandonata del ghetto di Varsavia. E' un capitolo che lascia il segno: non dice nulla di più di quanto generalmente si conosce della Shoah, eppure da come ci viene raccontato il destino di quella bambina, la sua solitudine, diventa uno degli esempi più alti di omaggio a questi esseri umani sacrificati a milioni nei campi di sterminio.


Altri personaggi arriveranno per raccontare la loro storia, fino a portare la storia e quel pezzo di terreno ai giorni nostri, dopo la riunificazione delle due Germanie. Fra un capitolo e l'altro, fra un personaggio e l'altro c'è il giardiniere: una specie di coro da tragedia greca, non dice nulla, lo si vede nel ciclo delle stagioni compiere le stesse operazioni, un po' invecchiato. Alcune notizie ci arrivano ma sono le voci del villaggio, non la voce del giardiniere. Lui è senza voce, lui parla con le sue azioni, solo verso piante, terra, legno ed animali, nulla verso gli uomini. Anche qui la bravura della scrittrice è nell'uso delle parole come se fossero le azioni che il giardiniere compie: il senso della ripetizione di operazioni precise, che cambiano al cambiare delle stagioni e dei proprietari viene reso plasticamente dalle descrizioni di Erpenbeck.

La storia raccontata da Erpenbeck, il passato remoto e recente della Germania del XX secolo, è già stato raccontato da altri scrittori tedeschi prima di lei. Quello che rende particolare questo libro è la suddivisione della Storia in tante piccole, singole, individuali storie: storie con nome e cognome. Come gli oggetti della famiglia ebrea venduti all'asta giudiziaria, Erpenbeck ci dice chi li ha comprati, ci dice a che prezzo. Questa singolarità trasforma le storie in storia universale, che non riguarda più quella nazione, quella regione, quelle persone: riguarda tutti noi e ci parla della fragilità della condizione umana e il tentativo, fallito e disperato, di nascondere e rimuovere questa fragilità.

Ma oltre e sopra e dentro tutto le storie, il racconto, c'è il tono di Erpenbeck, l'utilizzo delle parole, le ripetizioni, gli elenchi, i cambi di tempo e di spazio: sono 160 pagine ma sono pagine dense, lavorate, fitte, da leggere e amare.

Erpenbeck ha già pubblicato altri libri, sfortunatamente non sono stati tradotti in italiano (ma in inglese si), questo è pubblicato da Zandonai con una, a senso, eccellente traduzione di Ada Vigliani. Una piccola nota sul titolo: in tedesco è Heimsuchung che significa, anche, "visitazione" (quella della Beata Vergine Maria per intenderci). Infatti in inglese è tradotto con Visitation. Ma questo termine tedesco ha anche altri significati, più lugubri: afflizione, tribolazione. Dipende da chi ti fa visita. Titolo quindi intraducibile in italiano, bene ha fatto la traduttrice a scegliere questo "Di passaggio" perchè tali sono tutti i personaggi del libro. (per chi vuole, QUI una interessante nota della traduttrice sulla scelta del titolo)

Termino con un altro piccolo pezzo del libro, sperando che le parole dell'autrice siano in grado, più delle mie, di convincere qualcuno a leggere il libro:
Lei ha imparato cosa vuol dire perdere, capitolo primo: avere; capitolo secondo: perdere. Ha perso per così tanto tempo che ha imparato alla perfezione l'arte del perdere. Probabilmente, per imparare qualcosa bisogna che dalla testa scompaia qualcos'altro. Quando una volta la nipote le domandò se non le dispiacesse, per la casa, le mucche, l'intera prorietà, lei non comprese più il senso di quella domanda. Aveva salvato i bambini, non c'era altro da dire.

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