Svanire di Deborah Willis

Quasi trecento pagine per quattordici racconti. Leggo il primo, scritto bene, una capacità di raccontare tutto con poco. Non è minimalismo, piuttosto ricerca dell'essenziale, dei punti di svolta, di quello che ci fa andare da una parte o dall'altra. Il primo racconto è quello che dà il titolo al libro, è un padre che svanisce, e Willis ci fa seguire la figlia, Tabitha, avanti e indietro nel tempo rispetto al momento in cui lei e sua madre rientrarono dalla spesa con un busto di Elvis Presley e non lo trovarono più.
Finito il primo racconto mi dico che non è possibile che per altre tredici racconti ci siano storie di scomparse.
Leggo il secondo, qui è una madre che se ne è andata e sono due le voci che raccontano la storia, quella del marito e quella della figlia. Anche qui l'essenziale, rapidi dialoghi e scene tratteggiate per raccontare quello che succede dentro e fuori i protagonisti.
"Parlai di come faceva caldo, quel giorno, e di come l’aria si raffreddò tanto all’improvviso da gelare il sudore sulla maglietta fino a farmi tremare. I fulmini attraversavano il cielo grigio ogni manciata di secondi, e le nubi si ammucchiavano e separavano di nuovo.
La pioggia colpiva forte, ma non mi mossi dai campi. Neanche quando la nube a imbuto scese e toccò la terra del mio vicino. Non finché non soffiò via il tetto a piramide del suo granaio.
Allora salii nel mio camion, lo mossi verso un boschetto d’alberi, mi sedetti e mi misi ad ascoltare. Questo è ciò che ricordo di più.
Il colore, quel grigio, e il rumore. Pioggia e grandine sul tetto di metallo. Il vento alle mie spalle lanciava in aria chiodi e tavole, la grandine crepò il lunotto anteriore e frantumò il finestrino laterale. Il vetro mi atterrò in grembo, chicchi di grandine scrosciavano sul pavimento del camioncino. E poi finì.
Il silenzio era faticoso quanto il rumore della tempesta. Guardavo il turbine allontanarsi veloce come era arrivato. L’unico suono era quello dell’acqua che colava nell’abitacolo, formando una pozza intorno ai miei stivali.
L’imbuto aveva toccato terra per meno di due minuti. Non era nulla, non sarebbe neanche finito nel notiziario."


Non posso credere che per tutti gli altri racconti l'autrice riesca a parlare di persone che svaniscono.
Inizio il terzo:
"Quando sua moglie morì Tom cominciò ad andare al casinò."

La faccio breve: mi sono letto tutti i racconti pensando che prima o poi avrei trovato delle ripetizioni, che lo stile avrebbe avuto dei cedimenti, che un'autrice alla sua prima opera non sarebbe stata in grado di stupirmi fino alla fine. Invece no: lo stupore è quello che mi ha preso in ognuno di questi racconti, pur sapendo che qualcuno in qualche maniera scompariva, l'autrice mi ha sempre legato alla pagina, con la sua capacità di "suonare" queste quattordici variazioni in modo impeccabile.


Volendo trovare quelle che più di tutte ho apprezzato, ci sono "Tracce" e l'ultimo "La Separazione".
In Tracce una donna sta cercando l'amante del marito. La cerca per sapere chi è, per poterla dipingere, cerca le sue tracce.
"Tutto quello che so di te è disseminato in tracce: l’odore muschiato di lavanda e melassa in casa, le telefonate frettolose che lui fa quando crede che io non senta, lo sguardo sul suo viso. Forse se ci incontrassimo, potrei spiegarti la mia situazione. Spiegare la mia situazione. Come se le situazioni potessero essere ripiegate nelle ordinate scatole delle parole, come se la parola situazione potesse descrivere questo: ti stai fottendo (parola fantastica, scatola perfettamente modellata) mio marito. E per quattro mesi hai occupato la mia mente, una presenza che non riesco ad accantonare."
Mi piace per l'originalità della situazione e per le riflessioni che la protagonista è costretta a fare sull'uso delle parole.

La Willis è capace di scavare e descrivere molte situazioni familiari sempre diverse e "divertenti" pur nella loro normalità, segno di una persona molto attenta alle dinamiche della famiglia.
Mi è piaciuta molto la famiglia del racconto "La Separazione": il racconto è affidato a June, sorella minore di Claudia e figlia di una coppia che si sta separando.
"Ci avevano tirate su a lenticchie, riso integrale, Neil Young e celebrazioni del solstizio." 
Basta questa frase per raccontare tutta una famiglia, un'epoca, uno stile di vita. Che solitamente vediamo dal punto di vista di chi la vive, qui il punto di vista è rovesciato, di chi la subisce, delle figlie che in una famiglia così non riescono a trovare il modo di marcare la differenza, di ribellarsi. Il racconto prosegue:
"Nostra madre gestiva la cooperativa di alimentari del posto e indossava gonne fatte di fibra di canapa prima che la canapa diventasse chic. Nostro padre era un ceramista che vendeva tazze e scodelle al locale mercato contadino, aveva perso la maggior parte della memoria a breve termine, e non otteneva nessuna delle grosse commissioni bandite dal consiglio del turismo.
Quando io e Claudia eravamo bambine, ci incoraggiavano a comportarci come due piccole selvagge. Eravamo sempre all’aperto, e spesso nude. I vicini si lamentavano perché i nostri genitori non tagliavano mai il prato, convinti che i bambini dovessero avere erba alta in cui giocare e denti di leone da soffiare. C’era una nostra fotografia sul frigorifero: Claudia con tagli da tutte le parti e capelli che sembravano non essere mai stati lavati, e io, nuda tranne che per una t–shirt con su scritto: Odio la tv. Prendevamo vitamine, mangiavamo verdura, e riciclavamo la spazzatura. Eravamo state umiliate innumerevoli volte quando i nostri genitori ci trascinavano a marce contro l’apartheid e balli di solidarietà per Cuba. Un’estate, quando avevo otto anni, eravamo state obbligate a stare in piedi fuori dal supermercato locale a protestare contro l’importazione di uva dal Cile.

Non c’è da stupirsi che Claudia trovasse difficile essere un’adolescente. Voleva ribellarsi, ma con i nostri genitori non era facile."
L'altro motivo per cui questo racconto mi piace è perchè qui l'autrice mette a nudo una delle sue tesi sullo svanire e cioè l'impossibilità di svanire del tutto.
"Quello che capii, più tardi ma sempre molto prima che lo capisse Claudia, è che era impossibile. Che non avremmo mai potuto evadere. Qualunque cosa facessimo, non avremmo mai potuto separare loro da noi. I nostri corpi erano stati costruiti dalle lenticchie e dai semi di lino con cui ci avevano nutrite. La loro struttura ossea persisteva nei nostri visi. Il loro senso dell’umorismo e le loro nevrosi erano profondamente impiantate nei nostri cervelli, e avevamo ereditato le loro voci, i loro modi di dire, le loro storie. Erano i nostri genitori."
E arriva alla fine dell'ultimo racconto del libro: quattordici variazioni sullo svanire, sul dileguarsi, morire, fuggire, tradire, separarsi per poi esplicitamente dichiarare quello che tutti i racconti descrivevavno implicitamente, l'impossibilità di svanire. E' possibile farlo ma come June capisce che dai loro genitori non potrà evadere perchè sono parte di lei, così tutti i personaggi si portano dentro le persone che "svaniscono", le portavano dentro prima e se le porteranno dentro anche dopo.

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