Guarire si può. Persone e disturbo mentale di Izabel Marin e Silva Bon

Si sono fatte strada dentro di me parole "nuove". Utilizzarle, con i significati che da sempre meritano, non sarà semplice, penso, o forse sarà più semplice di quanto credo. Forse, basta ripetermi persona persona persona.

Prima fra tutte la parola recovery, intorno alla quale ruota questo libro. Poi persona, appunto, cittadinanza, reciprocazione, inclusione, percorso, persone con esperienza, utenti, ex-utenti, potere, stigma, de-socializzazione, parità.

Dal giorno della presentazione del libro “Guarire si può. Persone e disturbo mentale”, della collana 180 Archivio Critico della salute mentale, Edizioni alpha beta Verlag - inserita all'interno degli incontri di Segni Esíli. Verso il Festival dei Matti 2013 - alla BCM di Mestre, penso spesso a queste parole e alla storia che hanno incisa e incidono su tante persone.
Le autrici le hanno usate in un flusso comunicativo con Anna Poma, presidente della cooperativa Con-Tatto, e Lucio Bulgarelli, presidente dell’associazione Orizzonti, e con il pubblico, con impegno e trasporto. Parole a tratti sconvolgenti, se sul tavolo della trattativa c’è ancora una volta, forse, la più tradita di tutte: persona.

Si parla di persone e disagio mentale, appunto, e del momento dell'incontro tra le persone e il servizio di salute mentale, in modo particolare quello di Trieste, di una psichiatria di vita e non di morte, con persone, e non pazienti, attive e centro del proprio percorrere, fatto di tante tappe, del proprio progetto di sè. Si parla di lavoro di squadra che coinvolge tutti, operatori, utenti, famiglie, in modo paritario. Basta con dottori e malati.

Nella prefazione di Roberto Mezzina leggiamo:

Il concetto di recovery appare centrale oggi nel saldare le esperienze nate dalla deistituzionalizzazione della psichiatria e delle sue istituzioni
[Franco Basaglia] o che a esse si ispirano, con il sapere che emerge dalle esperienze delle persone, attraverso i processi di acquisizione di potere (empowerment) e di emancipazione.
Benché forme di recovery siano possibili ovunque e anche nelle condizioni più estreme, come dentro un’istituzione totale, o in reazione a quelle, essa si compie e si invera solo in uno stato di godimento dei diritti e di risposta ai bisogni che sono possibili unicamente in una piena condizione di cittadinanza. Ecco perché “cittadinanza” è la parola che ormai viene più frequentemente associata a recovery.
[…] Il verbo inglese to ricover significa riaversi, riprendersi, recuperarsi. Recovering è il percorso o processo che si compie.

A un certo punto ho cominciato a prendere alcune annotazioni:
Il modello medico che delega al corpo è da superare. Le persone vanno considerate nella loro interezza.

Servizi orientati alla guarigione e centrati attorno alla persona.

La recovery riguarda una persona e non un paziente.

Non siamo solo la malattia.

Nulla di noi senza di noi.

Addomesticare il disagio, rendendo familiare ciò che è considerato inaccettabile.

Servizio orientato alla recovery. Spazio. Tempo. Ascolto. Calore. Accoglienza da parte degli operatori.

La guarigione come progetto di vita. La guarigione è una linea mobile che si muove con la vita. La guarigione è acquisizione di possibilità.

Dove non esistono i servizi, nascono i gruppi (di auto aiuto).

Questo libro è straordinario perché a scriverlo sono due persone con esperienza.
Fianco a fianco, l’assistente sociale Izabel Marin del Dipartimento di salute mentale di Trieste, e la storica contemporaneista Silva Bon, il cui coraggioso coming out alla fine del libro, scritto a Trieste, 18 Aprile 2012, mercoledì sera merita di essere letto diverse volte; esperienza della sofferenza mentale in senso professionale, di chi accoglie, nel primo caso, e diretta, di chi cerca o ha bisogno di accoglienza, nel secondo, insieme. Ci raccontano il frutto di anni di ricerca attorno alla recovery.

Ancora dalla prefazione:

Il gruppo internazionale era composto da operatori professionali di diversi paesi […]. I soggetti intervistati [Silva, Nina, Pietro, Lucia, Matteo, Anna] erano persone considerate dai servizi «guarite, o in un percorso di guarigione» da un disturbo mentale, e che conducevano una vita sociale soddisfacente per loro stesse. La ricerca si fondava su un’analisi categoriale – basata su temi individuati dal gruppo nelle prime interviste – e su un’analisi narrativa che mirava a ricostruire il senso delle storie. […]
Il gruppo iniziale di ricerca poté allora essere ampliato […]. Era formato da due psichiatri […], uno psicologo, […], un’assistente sociale, […], e due persone con esperienza diretta […].

Devono tornare a farsi strada dentro di tutti noi parole nuove, solidali, dense di sfumature che una vita basata sulla concorrenza, sull'ostilità, sull'esclusione continua, sulla "roba" mira a cancellare.
A proposito di gruppi, fate un giretto sulla rete a conoscere il Torino Mad Pride e gli uditori di voci; e poi anche sul sito di alfa beta Verlag, tra i titoli della collana 180, in attesa del Festival dei Matti di novembre.

Chiudo con alcune frasi del coming out di Silva Bon:

Io vivo pensando. Spesso sola, mi abbandono ai miei pensieri, a voci che sento a volte fortemente amiche, altre volte offensive e deridenti. Mai neutre, perciò di loro tengo sempre conto nel bene e nel male; quando sono positive sono spesso linfa vitale nel silenzio intorno. Eppure so della necessità di esserci. Spesso mi butto con il coraggio della disperazione nelle avventure, nelle esperienze nuove, e a volte mi ritrovo impreparata. Ho toccato il fondo, in ogni estate, in ogni altra stagione dell'anno, più e più volte, eppure ancora mi ritrovo a risalire la china.
Passare attraverso tutto con ironia. Ah, se fosse possibile!

courtesy by Sabina Rizzardi



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