FINE IMPERO di Giuseppe Genna dopo Italia De Profundis e Assalto a un tempo devastato e vile

Vorrei iniziare queste righe con un sospiro udibile da tutti, ma non l’ho trovato in rete. Ho ascoltato Giuseppe Genna a Fahrenheit la settimana scorsa, le sue prime parole sono state a proposito del continente di plastica che c’è nell’oceano Pacifico, dove le navi sono costrette a navigare a vista, per non incagliarsi. Questo è il prodotto della fine del nostro impero. L’acqua, in questi giorni, a Venezia, è putrida e i pesci, tantissimi, muoiono. Muoiono anche le pantegane. Pare sia anossia, provocata dalle alghe. Pare. La puzza e il sospiro vorrei li sentiste tutti perché sono stati quelli a sorreggere la lettura dell’uno e trino, come ormai lo chiamo io. Mi è stato detto, leggi Italia De Profundis (2008) cominciando dalla seconda parte, dal racconto. Va bene. Ho seguito il consiglio, poi ho letto la narrazione della prima parte e poi Assalto a un tempo devastato e vile. Versione 3.0 (2010). D’estate ci rimango anch’io da sola in città, di solito gli amici mi portano i loro cani mentre sono via. Per dire che fuori, di pomeriggio, fa troppo caldo e allora stiamo in casa, io a leggere, loro a dormine, così ho letto anche Fine Impero (2013). Se si comincia a leggere Genna, non ci si può fermare. È una missione suicida, ma non si può che andare avanti, sospiro dopo sospiro. È una dissociazione tra rifiutarne le pagine e sentirle proprie e, in mezzo, non c’è mediazione o sublimazione, ma lo spettacolo senza società di facce ben note, gonfie, arancioni, che sembrano quelle ritoccate nelle fotografie di ceramica dei cimiteri, perette da clistere, o Mao Tse Tung.


“Tra una ripresa e l’altra, sono un migliaio di persone, più che un migliaio: casalinghe fuoriuscite dagli appartamenti della Brianza con i mariti piccoli industriali del legno, la suburra della enclave a nord di Milano, salumieri e gestori di parcheggi con autolavaggio, stanno scomparendo gli impiegati, venditori della Campari e liberi professionisti che smerciano tendaggi, acquirenti in mobilifici di nuova stazza, baristi e giocatrici del lotto sature di cattivo prosecco, pensionati dai nasi spugnosi con le mogli che inforcano occhiali dalle lenti lorde di polvere, meccanici esperti che operano in officine sulla statale verso i Laghi, profumiere, commesse proprietarie di negozi di vestiti, piazzisti di elettrodomestici, lavoratori di Curcio editore di enciclopedie, ambulanti dei mercati zonali, operai, camionisti e padroncini, imprenditori del bullone, collaboratrici di case di distribuzione di cosmetici, parrucchiere, panificatori, fruttivendoli, fondatori di minime aziende del settore chimico, matematici da casinò, fioristi, ferramenta, elettricisti, portavalori in nero, scopritori delle grandi opportunità offerte dal mercato delle multiproprietà, estetiste, tipografi, calciatori dell’Interregionale, donne delle pulizie, infermiere e geometri, frontalieri e catecumene, capireparto a bassa manovalanza del sindacato cattolico, ristoratori lacustri, pochissime aspiranti attrici, addetti pendolari in alberghi del capoluogo, restauratori di auto d’epoca e ingrassatori di serrande, macellai equini, bancarie da sportello, pendolari, artigiani, proti, edicolanti, usurai non sospettabili, gioiellieri e operatori di calzaturificio, tecnici di centraline telefoniche e tabaccai, compilatori di schedine del totocalcio a combinazione multipla, giocatori di biliardo da retrobar, lavoratori di fatica in spacci a conduzione familiare, piastrellisti, soci in ditte che mettono in posa piscine nella zona, grandi narratori di barzellette volgari, gente, si chiama «gente», «la gente», sono più che un migliaio, accalcati su due tribune circensi, urlano, scatenano l’istinto grossolano e violento che per un decennio di terrorismo e di timore comunista hanno trattenuto. È venuto il momento di alleggerire, di alleggerirsi. Qui, ora, nell’atmosfera fausta di un sogno collettivo che deve ancora nascere e prosperare e figliare le sue legioni di ultracorpi.”


“Ha alzato il calice, l’ho osservato: piagato, nelle strette incavature tiratissime della sua pelle, pare cipria e gomma, fard, anche in sovrappiù nelle righe orizzontali sulla fronte ampia, occhi ridotti a fessure di pelle gonfia e caduta, la dentiera bianchissima, che ricorda quella di cantanti crooner a Las Vegas, è una compatta chiostra quasi accecante se investita di luce [...].”
“Si era laureata in architettura poiché riteneva che progettare e costruire edifici, grandi forme e strutture significasse realizzare un valore dell’esistenza, dare un senso. Si era formata con il suo maestro, il minuscolo architetto, quando ancora aveva senso l’università in Italia e la ricerca e poi la produzione. Grazie a costui aveva partecipato alla progettazione e realizzazione di alcuni falansteri nella zona milanese della Bicocca.
Era quindi finita a fare la designer di gioielli per una stilista.
Era usuale per quella generazione italiana avvertire imminente il senso del compromesso, un valore che accresce la sicurezza nella vita, la pone al riparo da una prospettiva di sventura, la quale era andata intensificandosi nel corso delle decadi.
L’infelicità che ne derivava in lei aveva dunque a che fare con un comune e determinato sentimento del mondo, che poteva, e a buona ragione, palesarsi più lieve e sincero, coincidere con se stesso, fare credere che fosse un mondo oggettivo, solido, reale. Poiché il desiderio che tale mondo fosse vero era costantemente frustrato, se ne ignorava appunto la frustrazione. E dunque lei si era infilata, come del resto molti dei nostri coetanei italiani metropolitani, in una fitta nebula di ipocrisie isteriche, alla moda in quanto relative alla moda stessa, insieme a manager e direttrici e caporedattrici che rasentavano sadismo idiota o ebetudine sconfortante: la balbuzie morale di questo mondo fashion per come lo si è immaginato.
Molte volte squillava il suo cellulare. La vita dei nervi sinceramente ne risentiva.”

da Fine Impero alle pagine 107-108, 175, 227


“Vedo l’entrata sotterranea di un «Centro benessere». Ho tutta l’intenzione di sfruttarlo. Userò la finta carta di credito che ci è stata comminata, un trucco per spendere gioiosamente all’interno di questo recinto del divertimento – spendere senza avere la percezione di farlo.
Mi sistemo in piscina, nell’eco dei tuffi «a bomba» e degli stridii preadolescienziali.
Sono privo di muscolatura, pallido con la tintura verde vomito che i tipi mediterranei come me acquisiscono nel corso dell’inverno. L’uomo biliare che sono ha un’epidermide commisurata al proprio sangue amaro.
Mi stendo, osservo la corona di sdraio e ombrelloni intorno alla piscina, a cui devono avere aggiunto blu di metilene, poiché non si è mai vista nemmeno nel video di «Strawberry Fields Forever» una tonalità così intensa e accecante.
Il sole è pallido.
Le carni friggono per autocombustione e i bambini impazzano e danno ordini ai genitori come un reggimento compatto di Hitlerjugend.
All’improvviso esplode. Già me ne ero scordato. Mi sono disteso nell’ignoranza profonda di un samadhi marittimo, non pensando a nulla e a nessuno, soprattutto al corpo obeso della donna abruzzese con marito affetto da rachitismo al mio fianco: le pieghe di carne lipidica ai fianchi di questa steatopigia sono Wuberoni Aia di qualità aquilana. Il dialetto emesso dalla coppia mi stordisce come se a parlare, accanto a me, fossero coniugi giapponesi che provano una lezione di dialetto siculo. E appena riesco a assentarmi da tutto, raggiungendo l’ambìta condizione esistenziale dell’iguana, esplode.
È Madonna. E la hit di quattro anni orsono, «Hollywood». Ma qui, per gli abruzzesi dello spirito, sembra essere l’ultimo grido, e il grido dice in inglese: «Tutti vengono a Hollywood!» Il volume perforerebbe i timpani di un pachiderma. È un’esplosione ritmica che mi scuote di colpo il sistema nervoso come un incidente d’auto fatto a bordo di una Smart contro un Tir Iveco.”

da Italia De Profundis alle pagine 268-269

“Siamo qui, io e i miei amici, asserragliati al terzo piano di viale Sabotino. Fuori passa il tram, sferragliante ed elettrico, tra le piastre del pavé. La gente transita indifferente a tutto, tra le luminarie e le vetrine, dentro l’odore azotato che ha la città d’inverno. Quando ci penso, mi viene un tuffo al cuore.
«Il mondo contadino, dopo circa quattordicimila anni di vita, è finito praticamente di colpo», e anche l’Italia, anche l’Italietta, non è andata a morire in nessun luogo. Si è lasciata tramortire, lentamente, violentemente, come in un risucchio repentino, senza lasciare nulla se non l’acrimonia e, appunto, l’indifferenza. Ora, quando giro l’Italia nelle sue devastanti periferie urbane, quando la trapasso nei paesini delle cinture degli hinterland fumigosi, nella nebbia pesante che puzza di letame chimico, o quando entro nelle latterie dove si parla della tris bevendo Campari – io tasto il polso a una morte avvenuta che si è tradotta in una vita più sterile, automatica, indecente.

Da Assalto a un tempo devastato e vile. Versione 3.0 alla pagina 13.
Ci siamo immedesimati? Male. Il crollo è allora avvenuto.
“La sciatteria si pratica, gesto finale, come barbarie normale e quotidiana. Chissà dopo cosa viene, cosa preme dietro ogni muro pronto al crollo.”

La scoperta che qualcuno padroneggi una lingua e sappia esprimere quello che ha in testa e intorno, mi fa  ritornare cannibale e, allora, comincio a girargli attorno, concentrica, tipo avvoltoio, quella capacità la desidero anch’io, cerco di capire, così sono arrivata ai Millimetri di Milo De Angelis. La postfazione alle poesie del 1983 è di Aldo Nove e Giuseppe Genna.

I bastioni
hanno frantumato l’ultimo secchio
e ora il villaggio fa
silenzio
nella corte marziale. Ecco
l’inchiostro, tra una moltitudine
di assetati in orario,
un cognome:
tutte le uova molli
giungeranno
per forza o per disprezzo
e quel
faraone darà la staffilata
che ancora oggi ferisce
e le fa terrestri.
Chi genera il tempo
ha il volto arato e con pazienza ripete
che noi ubbidiamo

da Millimetri di Milo De Angelis, Il Saggiatore, 2013

“Devo vivere, anche se definitivamente morto?”, si chiede all'inizio di pagina 46 il padre senza più figli di Fine Impero. Spesso mi accorgo che i libri che leggo instaurano un dialogo tra loro. Franco Arminio, in Geografia commossa dell’Italia interna, che siamo già morti lo sa, lo sente.
Alle pagine 118 e 126 leggiamo:

“Sento che già faccio gola ai vermi eppure cammino ancora, parlo agli alberi, aspetto che finisca il loro inverno.”

“Davvero penso che nei prossimi secoli o nei prossimi decenni dovremmo dedicarci a cancellare molto di quello che abbiamo depositato sulla terra nell'ultimo mezzo secolo. Un lavoro di svuotamento che ci trovasse concordi sarebbe anche il segno di una nuova comunità. Addirittura di una nuova religione. Come se la nuova metafisica non fosse in alto nei cieli, ma in basso, sulla superficie della terra pulita da quello che ci abbiamo messo sopra, da tutte le chincaglierie che ne impediscono la vista.”

Buon sospiro a tutti. L'Impero è finito, andate in pace.

courtesy by Sabina Rizzardi

INSTAGRAM FEED

@libreria.marcopolo