“Tra una ripresa e l’altra, sono un
migliaio di persone, più che un migliaio: casalinghe fuoriuscite
dagli appartamenti della Brianza con i mariti piccoli industriali del
legno, la suburra della enclave a nord di Milano, salumieri e gestori
di parcheggi con autolavaggio, stanno scomparendo gli impiegati,
venditori della Campari e liberi professionisti che smerciano
tendaggi, acquirenti in mobilifici di nuova stazza, baristi e
giocatrici del lotto sature di cattivo prosecco, pensionati dai nasi
spugnosi con le mogli che inforcano occhiali dalle lenti lorde di
polvere, meccanici esperti che operano in officine sulla statale
verso i Laghi, profumiere, commesse proprietarie di negozi di
vestiti, piazzisti di elettrodomestici, lavoratori di Curcio editore
di enciclopedie, ambulanti dei mercati zonali, operai, camionisti e
padroncini, imprenditori del bullone, collaboratrici di case di
distribuzione di cosmetici, parrucchiere, panificatori,
fruttivendoli, fondatori di minime aziende del settore chimico,
matematici da casinò, fioristi, ferramenta, elettricisti,
portavalori in nero, scopritori delle grandi opportunità offerte dal
mercato delle multiproprietà, estetiste, tipografi, calciatori
dell’Interregionale, donne delle pulizie, infermiere e geometri,
frontalieri e catecumene, capireparto a bassa manovalanza del
sindacato cattolico, ristoratori lacustri, pochissime aspiranti
attrici, addetti pendolari in alberghi del capoluogo, restauratori di
auto d’epoca e ingrassatori di serrande, macellai equini, bancarie
da sportello, pendolari, artigiani, proti, edicolanti, usurai non
sospettabili, gioiellieri e operatori di calzaturificio, tecnici di
centraline telefoniche e tabaccai, compilatori di schedine del
totocalcio a combinazione multipla, giocatori di biliardo da
retrobar, lavoratori di fatica in spacci a conduzione familiare,
piastrellisti, soci in ditte che mettono in posa piscine nella zona,
grandi narratori di barzellette volgari, gente, si chiama «gente»,
«la gente», sono più che un migliaio, accalcati su due tribune
circensi, urlano, scatenano l’istinto grossolano e violento che per
un decennio di terrorismo e di timore comunista hanno trattenuto. È
venuto il momento di alleggerire, di alleggerirsi. Qui, ora,
nell’atmosfera fausta di un sogno collettivo che deve ancora
nascere e prosperare e figliare le sue legioni di ultracorpi.”
“Ha alzato il calice, l’ho
osservato: piagato, nelle strette incavature tiratissime della sua
pelle, pare cipria e gomma, fard, anche in sovrappiù nelle righe
orizzontali sulla fronte ampia, occhi ridotti a fessure di pelle
gonfia e caduta, la dentiera bianchissima, che ricorda quella di
cantanti crooner a Las Vegas, è una compatta chiostra quasi
accecante se investita di luce [...].”
“Si era laureata in architettura
poiché riteneva che progettare e costruire edifici, grandi forme e
strutture significasse realizzare un valore dell’esistenza, dare un
senso. Si era formata con il suo maestro, il minuscolo architetto,
quando ancora aveva senso l’università in Italia e la ricerca e
poi la produzione. Grazie a costui aveva partecipato alla
progettazione e realizzazione di alcuni falansteri nella zona
milanese della Bicocca.
Era quindi finita a fare la designer di
gioielli per una stilista.
Era usuale per quella generazione italiana avvertire imminente il senso del compromesso, un valore che accresce la sicurezza nella vita, la pone al riparo da una prospettiva di sventura, la quale era andata intensificandosi nel corso delle decadi.
Era usuale per quella generazione italiana avvertire imminente il senso del compromesso, un valore che accresce la sicurezza nella vita, la pone al riparo da una prospettiva di sventura, la quale era andata intensificandosi nel corso delle decadi.
L’infelicità che ne derivava in lei
aveva dunque a che fare con un comune e determinato sentimento del
mondo, che poteva, e a buona ragione, palesarsi più lieve e sincero,
coincidere con se stesso, fare credere che fosse un mondo oggettivo,
solido, reale. Poiché il desiderio che tale mondo fosse vero era
costantemente frustrato, se ne ignorava appunto la frustrazione. E
dunque lei si era infilata, come del resto molti dei nostri coetanei
italiani metropolitani, in una fitta nebula di ipocrisie isteriche,
alla moda in quanto relative alla moda stessa, insieme a manager e
direttrici e caporedattrici che rasentavano sadismo idiota o
ebetudine sconfortante: la balbuzie morale di questo mondo fashion
per come lo si è immaginato.
Molte volte squillava il suo cellulare. La vita dei nervi sinceramente ne risentiva.”
Molte volte squillava il suo cellulare. La vita dei nervi sinceramente ne risentiva.”
da Fine Impero alle pagine 107-108,
175, 227
“Vedo l’entrata sotterranea di un
«Centro benessere». Ho tutta l’intenzione di sfruttarlo. Userò
la finta carta di credito che ci è stata comminata, un trucco per
spendere gioiosamente all’interno di questo recinto del
divertimento – spendere senza avere la percezione di farlo.
Mi sistemo in piscina, nell’eco dei
tuffi «a bomba» e degli stridii preadolescienziali.
Sono privo di muscolatura, pallido con
la tintura verde vomito che i tipi mediterranei come me acquisiscono
nel corso dell’inverno. L’uomo biliare che sono ha un’epidermide
commisurata al proprio sangue amaro.
Mi stendo, osservo la corona di sdraio
e ombrelloni intorno alla piscina, a cui devono avere aggiunto blu di
metilene, poiché non si è mai vista nemmeno nel video di
«Strawberry Fields Forever» una tonalità così intensa e
accecante.
Il sole è pallido.
Le carni friggono per autocombustione e
i bambini impazzano e danno ordini ai genitori come un reggimento
compatto di Hitlerjugend.
All’improvviso esplode. Già me ne
ero scordato. Mi sono disteso nell’ignoranza profonda di un samadhi
marittimo, non pensando a nulla e a nessuno, soprattutto al corpo
obeso della donna abruzzese con marito affetto da rachitismo al mio
fianco: le pieghe di carne lipidica ai fianchi di questa steatopigia
sono Wuberoni Aia di qualità aquilana. Il dialetto emesso dalla
coppia mi stordisce come se a parlare, accanto a me, fossero coniugi
giapponesi che provano una lezione di dialetto siculo. E appena
riesco a assentarmi da tutto, raggiungendo l’ambìta condizione
esistenziale dell’iguana, esplode.
È Madonna. E la hit di quattro anni
orsono, «Hollywood». Ma qui, per gli abruzzesi dello spirito,
sembra essere l’ultimo grido, e il grido dice in inglese: «Tutti
vengono a Hollywood!» Il volume perforerebbe i timpani di un
pachiderma. È un’esplosione ritmica che mi scuote di colpo il
sistema nervoso come un incidente d’auto fatto a bordo di una Smart
contro un Tir Iveco.”
da Italia De Profundis alle pagine
268-269
“Siamo qui, io e i miei amici,
asserragliati al terzo piano di viale Sabotino. Fuori passa il tram,
sferragliante ed elettrico, tra le piastre del pavé. La gente
transita indifferente a tutto, tra le luminarie e le vetrine, dentro
l’odore azotato che ha la città d’inverno. Quando ci penso, mi
viene un tuffo al cuore.
«Il mondo contadino, dopo circa
quattordicimila anni di vita, è finito praticamente di colpo», e
anche l’Italia, anche l’Italietta, non è andata a morire in
nessun luogo. Si è lasciata tramortire, lentamente, violentemente,
come in un risucchio repentino, senza lasciare nulla se non
l’acrimonia e, appunto, l’indifferenza. Ora, quando giro l’Italia
nelle sue devastanti periferie urbane, quando la trapasso nei paesini
delle cinture degli hinterland fumigosi, nella nebbia pesante che
puzza di letame chimico, o quando entro nelle latterie dove si parla
della tris bevendo Campari – io tasto il polso a una morte avvenuta
che si è tradotta in una vita più sterile, automatica, indecente.
Da Assalto a un tempo devastato e vile.
Versione 3.0 alla pagina 13.
Ci siamo immedesimati? Male. Il crollo è allora avvenuto.
“La sciatteria si pratica, gesto
finale, come barbarie normale e quotidiana. Chissà dopo cosa viene,
cosa preme dietro ogni muro pronto al crollo.”
La scoperta che qualcuno padroneggi una
lingua e sappia esprimere quello che ha in testa e intorno, mi fa ritornare cannibale e, allora, comincio a girargli attorno,
concentrica, tipo avvoltoio, quella capacità la desidero anch’io,
cerco di capire, così sono arrivata ai Millimetri di Milo De
Angelis. La postfazione alle poesie del 1983 è di Aldo Nove e
Giuseppe Genna.
I bastioni
hanno frantumato l’ultimo secchio
e ora il villaggio fa
silenzio
silenzio
nella corte marziale. Ecco
l’inchiostro, tra una moltitudine
di assetati in orario,
un cognome:
tutte le uova molli
giungeranno
per forza o per disprezzo
e quel
faraone darà la staffilata
che ancora oggi ferisce
che ancora oggi ferisce
e le fa terrestri.
Chi genera il tempo
ha il volto arato e con pazienza ripete
che noi ubbidiamo
da Millimetri di Milo De Angelis, Il Saggiatore, 2013
Chi genera il tempo
ha il volto arato e con pazienza ripete
che noi ubbidiamo
da Millimetri di Milo De Angelis, Il Saggiatore, 2013
“Devo vivere, anche se
definitivamente morto?”, si chiede all'inizio di pagina 46 il padre
senza più figli di Fine Impero. Spesso mi accorgo che i libri che
leggo instaurano un dialogo tra loro. Franco Arminio, in Geografia
commossa dell’Italia interna, che siamo già morti lo sa, lo
sente.
Alle pagine 118 e 126 leggiamo:
“Sento che già faccio gola ai vermi
eppure cammino ancora, parlo agli alberi, aspetto che finisca il loro
inverno.”
“Davvero penso che nei prossimi
secoli o nei prossimi decenni dovremmo dedicarci a cancellare molto
di quello che abbiamo depositato sulla terra nell'ultimo mezzo
secolo. Un lavoro di svuotamento che ci trovasse concordi sarebbe
anche il segno di una nuova comunità. Addirittura di una nuova
religione. Come se la nuova metafisica non fosse in alto nei cieli,
ma in basso, sulla superficie della terra pulita da quello che ci
abbiamo messo sopra, da tutte le chincaglierie che ne impediscono la
vista.”
Buon sospiro a tutti. L'Impero è
finito, andate in pace.
courtesy by Sabina Rizzardi