And that’s when it happened.
“Qualche
anno fa ho avuto un inverno difficile. Ora non mi pare importante
ricordare l’origine di quel male. Avevo trent’anni e mi sentivo
senza forze, sperduto e sfiduciato come quando un’impresa in cui
hai creduto finisce miseramente. Un lavoro, una storia d’amore, un
progetto condiviso con altre persone, un libro che ha richiesto anni
di fatica. In quel momento immaginare il futuro mi sembrava
un’ipotesi remota quanto quella di mettersi in viaggio quando hai
la febbre, fuori piove e la macchina è in riserva sparata. Avevo
dato molto, e dove stava la mia ricompensa? Passavo il tempo tra
librerie, negozi di ferramenta, l’osteria davanti a casa e il
letto, a contemplare il cielo bianco di Milano dal lucernario.
Soprattutto non scrivevo, che per me è come non dormire o non
mangiare: era un vuoto che non avevo mai sperimentato.”
Accompagnato dalle voci di Thoreau, John Muir, Elisée Reclus,
Rigoni Stern, Primo Levi, John Krakauer, De André e Antonia Pozzi,
all’inizio della primavera, Cognetti se ne va nei boschi a cercare
Paolo.
“Il giovane uomo urbano che ero diventato mi sembrava l’esatto
contrario di quel ragazzo selvatico, così nacque in me il desiderio
di andare a cercarlo. Non era tanto un bisogno di partire, quanto di
tornare; non di scoprire una parte sconosciuta di me quanto di
ritrovarne una antica e profonda, che sentivo di aver perduto.”
Inverno Case Topografia Neve Orto Notte Vicini Pastore dove vai
Maschi Capre Baita magica Rifugio Pianto Ritorno Parole Desarpa
Ultima bevuta, sono le parole dei momenti che scandiscono le cento
pagine di questo diario. In montagna, dove le femmine si vedono solo
col binocolo, i maschi, con le mani grandi, ne usano poche.
Dal suo blog :
“Ho sempre scritto di ragazze per un motivo puro e semplice: la
paura boia di scrivere di maschi, ma prima o poi sapevo di doverla
affrontare. Ora penso di aver cominciato a guardarla in faccia. Qui
sono tutti maschi, perfino gli stambecchi e i cani, e si potrebbe
anche leggere Il ragazzo selvatico come il libro di un uomo
che fa i conti con la sua natura maschile. Anche ritrovando un corpo,
assaporandone la libertà e la forza. Ripensando ai vecchi maestri e
cercandone di nuovi.” Ecco allora comparire i suoi maschi, Remigio
e Gabriele, il cane pastore Mozzo, il capo stambecco, il padre, un
topo, Andrea e Davide su al rifugio.
“Remigio leggeva di tutto, ma più di tutto i libri difficili.
Quell’anno Sartre, Camus e Saramago. Era stupefacente camminare su
un sentiero e sentirlo fare questi nomi, ricostruire le nostre storie
opposte di lettori: io, liceale di città, avevo finito per rifiutare
gli scrittori intellettuali e innamorarmi della narrativa americana,
quella della frontiera e della strada; lui invece aveva la terza
media, era cresciuto in un villaggio di montagna e a quarantacinque
anni stava scoprendo i classici. Mi raccontò della sua infanzia
solitaria, da figlio unico timido e senza amici. A quattordici anni
aveva cominciato a fare il muratore con suo padre. Preferiva il
lavoro alla scuola, ma aveva un carattere riflessivo e a un certo
punto si era accorto di un grave limite: le parole che conosceva non
gli bastavano per dire come stava.
Mi fermai. Camminavamo nel bosco di settembre senza incontrare
nessuno. In che senso?, gli chiesi incuriosito. Nel senso, mi spiegò
Remigio, che aveva sempre parlato in dialetto, e il dialetto ha un
lessico ricco e preciso per indicare i luoghi, gli attrezzi, i
lavori, le parti della casa, le piante, gli animali, ma diventa
improvvisamente povero e vago se si tratta di sentimenti. Lo sai come
si dice quando sei triste?, mi chiese. Si dice: mi sembra lungo. Cioè
il tempo. È il tempo che quando sei triste non passa mai. Ma
l’espressione va bene anche per quando soffri di nostalgia, quando
ti senti solo, quando non riesci a dormire, quando non ti piace più
la vita che fai. Remigio a un certo punto decise che quelle tre
parole non gli bastavano, gliene servivano di nuove per dire come
stava, e si mise a cercarle nei libri. Per questo era diventato un
lettore così vorace. Cercava le parole che gli parlassero di sé.”
L’inverno finisce e torna la primavera con i pastori e i loro
animali.
“Ma il cambiamento più grande, nella mia vita quotidiana, fu
provocato dai cani. Siccome mettevo via per loro le croste di
formaggio, tornavano a trovarmi diverse volte al giorno (a dire il
vero, anche se non è da montanaro, ogni tanto sostituivo alle croste
qualche biscotto, di quelli che tra me chiamavo i biscotti degli
amici). Avevano un campanello appeso al collo grazie a cui li sentivo
arrivare da lontano. […] si chiamavano Black, Billy e Lampo. Black
era il più vecchio, un gran bastardo nero con sei dita nelle zampe
posteriori e l’orecchio destro sbranato in chissà quale rissa. Per
questo decisi di non chiamarlo Black, ma Mozzo.”
Ci sarà posto lassù, tra i maschi, per altre due vicine? Quasi
subito mi sono fatta questa domanda, leggendo queste sue righe
intime, per me emozionanti e anche difficili. Per la timida e nera
quattrozampe Olympia, sicuramente sì! Poi da trentenne, ancora per
un po’, ho pensato di dire un bel Grazie caro Paolo, perché
nessuno si vergogni più di raccontare che, tra le faccende e i
giorni, a volte, piange e si commuove.
“Il giorno dopo partirono anche i miei vicini. Più che per gli
uomini, con cui non ero mai riuscito a legare, mi dispiaceva per i
cani. Mi mancava il suono della campanella che annunciava le loro
visite. Siccome Mozzo arrivava al passo, Billy al trotto e Lampo al
galoppo, avevo perfino imparato a riconoscerli dal tintinnio. Se ne
andarono senza salutare, e io pensai: meglio così. Si sa che ai cani
gli addii non piacciono per niente, e anch'io non sono molto portato
per le cerimonie. Lavai la loro ciotola rossa ed era un altro pezzo
d'estate in meno, ritirato e messo via; quando i pezzi sarebbero
finiti avrei potuto chiudere la porta e partire.”
Ma non prima di una mitica ultima bevuta, in cui tenta
l’impossibile.
courtesy by Sabina Rizzardi