Scimmia nera di Zachar Prilepin

Quando è che mi sono perso , ecco la vera domanda...
Brancoli tirandoti dietro un filo, ti fai sempre più sottile, ti sembra di diventare più piccolo della cruna di un ago, più piccolo del filo che vi è passato dentro sfilacciandosi in mille filamenti sottili, più sottile del filamento più sottile, e a un tratto vieni strappato dai confini di te stesso, non verso il non-essere, ma nella direzione opposta, verso lo stato di transizione dove tutto sarà spiegato. […]
Oppure è nei sobborghi della mia città che mi sono perso, quando, arrampicato su un albero, all'improvviso mi si è gelato il sangue, sono rimasto impietrito, senza il minimo pensiero, finché le voci dei ragazzini del vicinato, che mi avevano perso di vista, non si sono azzittite, svanendo nella foschia – ed ecco a un tratto, sull'altra riva del putrido fiume grigiastro, luogo dei nostri svaghi, ho visto una vecchietta vestita di nero che camminava lenta e tranquilla, come il figlio di Dio nel quadro di un pittore; in seguito, vedendo il quadro, ho riconosciuto immediatamente la vecchietta, la mia però aveva strane braccia, lunghe quasi fino a terra. Allora sono piombato giù dall'albero, lasciando brandelli di pelle bianca qua e là sui rami appuntiti e nodosi. […]
Oppure mi sono perso nella grande città mentre guardavo l'insegna del negozio – sapevo già leggere – e all'inizio ho capito il significato delle lettere, ma poi in un baleno l'ho perso e con meravigliosa ovvietà per me, bambino che ragionava a malapena, è stato chiaro che le parole non hanno senso, che esse con i loro significati artificiosi si sfaldano al primo tocco, poiché siamo noi ad aver inventato quei significati e le parole stesse, e tale invenzione è evidentemente assurda, straordinariamente disarmante! Andare dove, visto che tutto si sgretola come le lettere dell'insegna, che si possono solo ammucchiare con la paletta e buttar fuori dalla porta spalancata nel buio, così che all'unica stella vada di traverso la nostra folle stupidità.
Eh?

Ecco, un po' contratto, l'incipit del libro. Al lettore viene già detto tutto e subito: le domande esistenziali, gli accenni biografici e le teorie che fluiscono nel testo. Ma cosa è questo, un diario? No, è un romanzo.
Ecco la trama in breve. Un giornalista intraprende una atipica inchiesta per fare luce su una questione all'apparenza fantascientifica: l'esistenza di bambini “nuovi”, incapaci di alcuna empatia, dal linguaggio quasi non verbale, misteriosi e in grado, forse, di ammazzare chiunque con la stessa facilità con cui si schiaccia una formica, perché non sono più umani, sono “altro”. La ricerca del protagonista si muoverà tra peregrinazioni in laboratori misteriosi e surreali, città e paesi sfatti e feudali, tra racconti di mitiche invasioni di bambini distruttori in un tempo medievale indefinito e nell'Africa dei bambini soldato, e tra i ricordi biografici dello stesso protagonista, che perderà le redini della sua ricerca e della sua vita confusa.
Qui sopra ho scritto “atipica” perché leggendo Scimmia Nera non ci si trova di fronte ad un romanzo “normale”, intendendo per questo un romanzo di genere (fantascienza, giallo, noir...). Prilepin usa elementi della letteratura di genere (l'inchiesta del thriller, la surreale presenza di “esseri misteriosi” degna della fantascienza europea) e li fa collassare su loro stessi, rendendoli elementi estranei alla banalizzazione del sistema dei generi, e soprattutto non inerti, anzi essi sono componenti chimiche che risultano in una combinazione esplosiva, i cascami della quale danno a Prilepin il materiale da cui ricavare un romanzo duro e sfaccettato, in cui la narrazione si spezza e si moltiplica in racconti, ricordi e pensieri del protagonista. E come nella migliore letteratura di genere, questo “romanzo”, lungi dall'avere come fine l'intrattenimento, parla al lettore proprio di lui e di ciò che lo circonda, la sua realtà, indagata nel profondo tramite la fiction. Ecco allora che dalle peregrinazioni e dai ricordi del nostro protagonista prende forma il racconto di una realtà feudale, in cui il forte prevarica e non c'è altra giustizia che quella del potere. Un mondo allo sbando in cui la violenza è ovunque. Un mondo umano, dunque riflesso della natura umana, indagata come nei romanzi della grande tradizione russa, come in Dostoevskij. Ma le tensioni laceranti che nel XIX secolo erano apertamente politiche, oggi sono introiettate nella psiche e nel linguaggio.
Prilepin ci racconta con passione che le parole sono trappole. Il giornalista protagonista infatti si perde letteralmente nelle parole che gli dicono, cioè nelle storie che gli raccontano (due racconti-nel-racconto surreali, grotteschi e bellissimi), in cui lui crede, secondo le quali forma la sua visione del mondo:

Una cacofonia! Un fracasso! La vita è una frana di pietre! Non cercare il senso, cerca riparo!

Ma mentre rincorre questa realtà perde per strada la sua vita e va incontro ad una crisi fortissima, si perde, oppure la dà vinta a quella “scimmia nera” del titolo, quel qualcosa di simbolico e minaccioso che accompagna il protagonista e forse ognuno di noi per la propria vita. Un'entità mortifera e distruttrice, una rappresentazione del Male (ma è un Male sociale, un Male dentro l'uomo) che torna e ritorna nel romanzo, magari sotto forma del “nonno” durante la naia, o da bambino quando vede per gioco ammazzare i colombi, o nella violenza come modo di vivere d'oggi, un ordine apparentemente naturale delle cose al quale non si può che sottostare, per andare avanti. 

courtesy by Matteo Cattelan

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