Una settimana fa mi svegliavo in una baita di legno e pietra, la faccia leccata da un cane impaziente di uscire. Ora all'alba i muri tremano al passaggio dei camion e dal mio letto ascolto le sirene delle navi.
Il nostro amato Paolo Cognetti parte dalla montagna e torna a New York. Questa volta ce la racconta attraverso il cibo e, ogni volta, è un piacere essere al suo fianco. Ecco per voi le prime pagine del libro.
Ritorno a Gotham
Uscire dalla porta dell'aereo, di nuovo in città dopo due anni e dritto dalla montagna, è come aprire gli occhi dal sonno e strizzarli alla luce. Non c'è un mese migliore di ottobre per tornare a New York. Il sole del pomeriggio mi manda indietro nelle stagioni fino a un'estate che ormai credevo esaurita da un pezzo, sepolta sotto i maglioni di lana e la prima neve che ho visto cadere partendo. Per via del paesaggio che ho avuto intorno fino a poco fa, appena sbarcato mi sorprendo a osservare non la distesa placida del Queens, né il profilo di Manhattan che vibra all'orizzonte, ma il gran cielo della costa atlantica, le sue nuvole basse e come schiacciate da un peso, la striscia di mare che costeggia l'aeroporto. Sotto i binari della sopraelevata con cui mi avvio in città c'è una zona paludosa: l'avevo mai notata prima? Ed è un airone quello che vedo posarsi tra le canne della riva, accanto a un mucchio di pneumatici incagliati nel fango? Mi ricordavo, sì, di questi atti di guerriglia della natura newyorkese - l'edera sui pali della luce in legno, i gatti randagi nei lotti abbandonati - la beffa di inselvatichire la città appena volta lo sguardo, e dove è più facile che si distragga. Cerco i nomi degli alberi, camminando verso casa dalla metropolitana. Riconosco l'acero dalla foglia a cinque lobi e il platano dalla corteccia che si stacca come una crosta, lasciando macchie chiare nel tronco. E poi, all'angolo tra Court Street e Carroll, perfino un abete argentato. Oggi non è un abete ma un messaggio per me - è la montagna che mi saluta dopo avermi accompagnato fin qui, come si affida un amico alla sua nuova casa. Chi l'avrebbe mai detto: non le facciate delle brownstone né le zucche di Halloween sui davanzali, ma gli alberi dei giardini di Brooklyn questa volta mi danno il bentornato.
Nel cortile sotto casa c'è un fico. Esco a bere la mia birra rituale sulla scala antincendio e ritrovo le piscine gonfiabili, il sapore della Brooklyn Lager, gli steccati dipinti di fresco e i giocattoli dei bambini. Ma il fico non me lo ricordavo: come c'è finito qui? È proprio vero che non cambiano le cose ma solo gli occhi con cui le guardiamo. Così, in un certo senso, passo i primi giorni a confrontare i cambiamenti del quartiere e i miei. Una volta lo giravo a piedi, ora preferisco la bicicletta: nell'euforia per questa estate d'ottobre ne compro una usata con cui andare a zonzo, a fare il conto delle perdite e registrare le novità . [...] Avevo una mezza idea di attraversare il ponte in bici, oggi, ma decido di rimandare. Mi ci vorrà un po' di tempo anche questa volta per fare pace con l'isola.
Trovo un libro sulla cucina degli immigrati d'inizio Novecento, e un altro sulle autoproduzioni attuali. Comincio a raccogliere idee per un discorso su New York e il cibo. Sarà senz'altro la storia di un'ossessione: questa città non fa che mangiare tutto il tempo, perciò bisognerà indagare la natura della sua inestinguibile fame. Prima, penso, dovrei occuparmi della materia prima - il pane e il vino di New York che cosa sono? Poi dei suoi otto milioni di affamati. Seguendo una traccia partita dai farmers market scopro un altro fenomeno dilagato mentre non c'ero: sui terrazzi e nei cortili, nei parchi pubblici, perfino nei giardinetti di quartiere, sono spuntati centinaia di orti urbani. Ne ho visto uno grande come un campo sotto le case popolari di Red Hook, palazzoni di dodici piani ai cui piedi si coltivano lattughe, cavoli, carote, cetrioli, tutta la verdura d'autunno che tra qualche giorno sarà raccolta e distribuita tra gli abitanti. Imparo anche che l'agricoltura urbana non è una pratica inedita a New York - anzi, si potrebbe riscrivere la storia della città attraverso quella dei suoi orti, che scompaiono nei periodi di benessere e ricompaiono con le crisi: è successo negli anni Settanta così come durante la Depressione, e prima ancora nell'epoca che il mio libro chiama "Age of migration", il cinquantennio a cavallo tra Otto e Novecento in cui dall'Europa sbarcarono milioni di immigrati. A quanto pare erano italiani i contadini più industriosi.