Istanbul Istanbul è un romanzo sulla prigionia in Turchia: immagino che Burhan Sonmez sperasse di non essere così di attualità, oggi che proprio in Turchia, dopo il fallito golpe estivo, sono in migliaia ancora in prigione, compresa la scrittrice Asli Erdogan.
Burhan Sonmez è stato in carcere nel suo paese, per motivi politici. E' stato in esilio e l'esilio ce lo racconta in Gli innocenti. E' tornato in Turchia ed è stato fra i protagonisti della rivolta di piazza Taksim. Penso che Istanbul Istanbul sia un libro necessario, che rispecchi un'impellente esigenza di scrivere, di dare voce alla sua esperienza e a una esperienza condivisa da molti in quel paese.
Siamo dunque in carcere, sottoterra, l'inizio del romanzo coincide con una piantina, una prigione sotterranea, poche celle, minuscole, in ognuna pochi e stipati prigionieri. Tutto si svolge praticamente all'interno di una unica cella, dove si trovano i quattro protagonisti: un dottore, un barbiere, uno studente e un vecchio rivoluzionario.
Lì dentro vivono, aspettano: le giornate sono scandite dall'arrivo del rancio e dal rumore della porta metallica che può aprirsi e quando si apre significa che stanno venendo a prenderli per torturarli: chi sarà questa volta?
Questa è la scena, lo sfondo dove i personaggi di Sonmez si muovono. Per fortuna, quasi mai entriamo dentro la sala della tortura, il dolore fisico, quando i torturatori agiscono, rimane quasi sempre taciuto, non detto, non descritto. E' una sorta di protezione, forse nei confronti di noi lettori, ma soprattutto nei confronti di chi patisce e ha patito, l'indicibile deve rimanere non detto.
Ecco che vien fuori la parte meravigliosa del libro, è la parola, che non può e non vuole raccontare il dolore, può, vuole e deve lenirlo, costruire un'altra possibilità. I quattro in cella, che accolgono il sofferente di turno, se ne prendono cura fisicamente e con le loro parole, le parole dei racconti che i prigionieri danno l'uno all'altro e che diventano il modo per evadere, l'arma più potente, che fa scrosciare fortissime le risate, nella piccola cella, della prigione sotterranea.
Due sono le Istanbul: per quelli che vivono nella Istanbul sotterranea, nella prigione, la Istanbul di sopra è quella che si può visitare in sogno, con i ricordi, con i racconti, quella dove si era e si sarà, liberi. Per chi vive nella Istanbul di sopra, la Istanbul di sotto, quella della prigione, non esiste.
Al Dottore piaceva distogliere il nostro sguardo e portarci nel mondo esterno. Aveva insegnato a farlo anche a me. Invece di parlare del dolore era meglio immaginare la vita fuori. Il tempo, che era fermo perché i nostri corpi erano imprigionati in quella cella, ricominciava a ticchettare quando la nostra mente vagava all'esterno. La mente era più forte del corpo; il Dottore diceva che era scientificamente provato. Ci ritrovavamo spesso a immaginare la vita fuori, per esempio condividevamo la gioia dei passanti sulla riva. Salutavamo le persone che ballavano su una barca vicino alla spiaggia di Ortakoy con la musica a tutto volume. Passavamo accanto agli innamorati che si abbracciavano. Quando il sole scendeva all'orizzonte, il Dottore comprava un sacchetto di prugne verdi da un venditore ambulante. Sorridendo, le offriva prima a me.
Un giorno della settimana precedente mi avevano buttato nella cella mezzo incosciente. Avevo le labbra secche e riuscivo a dire solo parole incomprensibili. Il Dottore, pensando che volessi dell'acqua, mi aveva tirato su e provando a darmi da bere mi aveva fatto aprire gli occhi. "Non voglio l'acqua, ma le prugne verdi", avevo detto. Avevamo riso per due giorni.
Istanbul Istanbul
di Burhan Sonmez
tradotto da Anna Valerio
design di Dario Zannier
pagine 299, 17 €
edizioni nottetempo 2016