Cacciatori di frodo di Alessandro Cinquegrani

Abisso e argine.
In questo libro bello e doloroso sono queste le due parole che uso per ancorarmi al senso del racconto.
L'abisso che circonda i personaggi di questa storia, abisso di dolore, di atti compiuti e di atti mancati.

L'argine, quello fisico del fiume che viene percorso per quasi tutti i capitoli e quello metaforico che impedisce di piombare a corpo morto nell'abisso.


Mi verrebbe da fermarmi qui, da non dire altro perché qualsiasi affermazione non riesce a dare e a dire quello che è il maggior pregio del libro, la sua scrittura che ci tiene sull'argine guardando in giù verso l'abisso per tutti i capitoli.
Forse è meglio riportare un brano:

Dodici chilometri, dalla casa cantoniera dove siamo andati a stare dopo che è successo tutto, dopo che è finito tutto, che si è smesso di smaltire gomma di pneumatici ai margini della città con pochissime infrazioni al senso di efficienza del nostro florido Nordest, dodici chilometri. Di un binario morto. Mi chiedo ancora ogni volta, penso mentre percorro i dodici chilometri del binario morto della ferrovia, se mia moglie, perché Elisa bene o male è ancora mia moglie, persino ora e persino qui, sul binario morto, Elisa è ancora mia moglie, porca puttana, mi chedo ogni dannata volta che percorro questi dodici chilometri di binario morto, ogni mattina, se mia moglie che ogni mattina esce di casa prima dell'alba, con la camicia da notte bianca di prima dell'alba, e percorre il buio con la camicia da notte bianca mossa dal vento nella notte prima dell'alba e si sdraia con la camicia da notte sul binario morto della ferrovia e aspetta che il treno le faccia rotolare la testa giù dall'argine e nel fiume, mi chiedo se lo sappia che il binario è un binario morto, uno degli scempi assurdi dell'Italia centralista di Roma, e porcodio, questo binario morto della ferrovia costruito dentro l'argine del fiume è come un grattacielo sulle sabbie mobili da stronzi, mi chiedo se lo sappia mentre aspetta ogni mattina il treno che le butti giù la la testa dall'argine e nel fiume, se un fremito la scuota, se pompi il cuore nella testa come un Hummer, se sbatta, se s'incazzi o se stia zitto, sospeso sulla nuvola al guinzaglio di espiazioni troppo acerbe.

Non voglio parlare di flusso di pensieri, quello che avete appena letto a me pare una eruzione più che un flusso. Un flusso mi dà l'idea di qualcosa di liquido, che si adatta: qui le parole assumono una forma plastica, non ci sono più solo le parole, le parole si aggrappano l'una all'altra e formano frasi ripetute che hanno un loro spessore, una loro profondità, una loro durezza: sono lapilli e lava, sono pietre che cadono.
Se questo brano non vi è piaciuto, lasciate stare il libro.
Io sono rimasto a bocca aperta e mi sono solo domandato se sarebbe riuscito a continuare così per tutto il libro.
Ce la fa e molto bene.
La trama è praticamente già dentro al brano che ho trascritto: la voce narrante Augusto, ogni mattina va a recuperare Elisa, sua moglie, dal binario morto dove lei, ogni mattina all'alba in camicia da notte, va ad aspettare un  treno che la uccida. Lui va a recuperarla ogni giorno, percorre questi dodici chilometri, attento a mettere i piedi sulle traversine, su questo binario che corre lungo il fiume Piave. Cosa li ha portati lì, quali siano le acerbe espiazioni che Augusto si porta dietro come una nuvola al guinzaglio, questo lo scopriremo nel corso del racconto, dal pensiero circolare e ripetitivo di Augusto. Solo lui a raccontare, Elisa è ormai muta, tutti gli altri saranno portati a noi da Augusto. E sono tanti i personaggi che hanno scavato questo abisso. Abisso che diventa più fondo e più vasto man mano che Augusto procede e racconta e pensa; voragini che di continuo si aprono nella mente di Augusto. Argine che diventa più labile, Augusto una volta se ne allontana ma poi ritorna subito indietro, deve restare lì, deve badare onestamente alla sua famiglia; fino a che l'argine non sparirà del tutto. Il modo dell'autore di raccontare i pensieri di Augusto ci permette di non immedesimarsi nella voce narrante, il continuo ripetere di "penso" ci fa illudere che sia solo un problema suo.
La grande bravura di Cinquegrani, oltre alla scelta di questa cifra stilistica e alla capacità di mantenerla senza cedimenti nè esagerazioni fino alla fine, è quella di aver creato, per bocca e pensiero di Augusto, una vera e propria storia che si affaccia alla consapevolezza del lettore per accenni, per flash, per racconti.
Chi si legge questo libro si prepara a percorrere dodici chilometri lunghissimi e dolorosi ma di rara potenza: prima avevo scritto bellezza ma sbagliavo, è una scrittura potente che tiene ancorato il lettore per tutte le volte che percorriamo i dodici chilometri perché noi sappiamo che quello è un binario morto.


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