Cento micron è il primo romanzo di Marta Baiocchi, ricercatrice nel campo delle cellule staminali. Cento micron è la dimensione di un embrione allo stadio iniziale: in tre giorni la cellula fecondata si replica, si divide. Una cellula ne dà due, e due ne danno quattro. Anche la copertina di questo romanzo è inequivoca: una donna con un pancione è un chiaro segno dell'argomento trattato.
Eppure. Eppure di donne incinte nel libro non ce ne sono, fra le protagoniste almeno. C'è una ricerca/rincorsa al figlio: Bibi, donna viziata e sfortunata e tosta, deve ricorrere all'inseminazione artificiale pur non essendo il suo caso fra quelli contemplati nella legge in vigore in Italia. E non rimarrà incinta. Eva, la protagonista, donna gran lavoratrice e sfortunata e tenace, ci pensa, forse un figlio lo farà, ma non in questo romanzo.
Donne incinte, niente. Figli, invece, molti: quello voluto a tutti i costi da Bibi, quel figlio che fa da motore immobile di tutto il libro. I figli distrutti dalle madri, come quelli adottivi di uno dei personaggi più riusciti del romanzo: una signora senza nome, dotata di troppo potere e cervello per poter avere anche un cuore all'altezza. Il figlio che lo Scrittore chiede a Eva: forse un tentativo per non farla andare via, per legarla a sè, forse solo l'estremo tentativo di trovare un senso ad una vita spesa lungo strade che non hanno portato in nessun luogo. Bibi stessa è una figlia "costruita" (o distrutta, dipende dai punti di vista) da sua madre. Oltre al desiderio di avere figli, oltre al limite che a questo
desiderio le leggi impongono e la riceca scavalca, oltre a tutto questo
nel libro c'è un interrogativo di fondo, ben più importante: e una
volta nati, questi benedetti figli, che ne facciamo? E poi ci sono i figli non biologici: sono rapporti genitori-figli quelli fra Eva, ricercatrice al dipartimento di biologia, e il direttore del dipartimento; fra il grande ginecologo della clinica privata e il suo assistente che nella ricerca vede l'unica via per l'indipendenza. Rapporti autoritari, paternalistici, di generazioni che non vogliono e non sanno dare spazio al nuovo, ai giovani. Un po' la storia della nostra cara patria. E anche questo argomento è a lungo e diffusamente trattato nel libro, soprattutto nell'aspetto dell'università e della ricerca, campi evidentemente ben noti all'autrice: la scarsa o nulla valorizzazione di chi veramente vale, il prevalere della relazione sulla bravura, la promozione del fido cretino piuttosto che del valido rompiscatole. Le pagine più riuscite, a mio vedere, sono quelle che descrivono l'esperienza di uno dei personaggi in Inghilterra, all'epoca del suo dottorato: sono dotate di una freschezza e di una disarmante sincerità che viene il sospetto che possano essere, almeno in parte, autobiografiche. Le meno riuscite sono invece quelle dedicate ai personaggi: JFK, lo Scrittore, Prandi sono "piatti", sembrano stereotipi a cui l'autrice non ha permesso di avere vita propria, altri figli "distrutti".