Vogliamo tutto è del 1971, scritto da Nanni Balestrini e pubblicato da Feltrinelli. Verrà ripubblicato altre volte da diversi editori fino alla più recente edizione di Derive&Approdi del 2004. Molti libri deli anni ’70 sono stati dimenticati o vivono solo nelle librerie dell’usato, questo no, pur con un pubblico ristretto rimane in catalogo. E rimane anche un libro da leggere, attualissimo ancora oggi dopo 40 anni, sia per lo stile che per il contenuto.
Balestrini fa parlare un operaio, un emigrato dal sud italia per lavoro, un operaio particolare che ben presto diventa la voce di tutti gli operai nella sua condizione. Questa voce non poteva avere uno stile “letterario”, le frasi ricalcano il parlato, sembra quasi la trascrizione di una registrazione, punteggiatura quasi inesistente, qualche bestemmia dove ci vuole. Balestrini non forza la mano, la sua operazione non è dovuta a ricercatezza stilistica ma a necessità narrativa, dare voce a chi non potrebbe esprimersi in altro modo.
Le vicissitudini narrate sono di un’Italia passata: un’emigrazione dal sud che abbandona la terra per andare nel nord ad alimentare le fabbriche, di automobili soprattutto. E della lotta fra operai e padroni, nello specifico del libro fra operai e Fiat nel 1969. Si può leggere questo libro come un interessante e realistico resoconto di un momento preciso della nostra recente storia nazionale: già questo è un grande merito del libro, far emergere da un passato nebuloso slogan come “lotta continua” e “autonomia operaia”, raccontarli nella loro nascita facendo capire la loro reale necessità in quel momento storico, liberandoli dalla patina di vergogna che gli anni del terrorismo armato hanno deposto sopra.
Si può leggere il libro come passaggio dall’individualità alla collettività, dalla questione personale a quella politica. L’io narrante descrive le sue avventure lavorative dove il suo impegno preciso è quello di ottenere i soldi cercando di essere sfruttato il meno possibile: in questa parte il libro ha un tono quasi picaresco. Quando poi arriva nella grande fabbrica, in Fiat, scopre che la sua condizione e la sua ricerca è comune a tutti gli operai e quindi passa dall’uso di sotterfugi per ottenere vantaggi individuali alla lotta comune, alla lotta di tutti gli operai per tutti gli operai.
Ma anche questo potrebbe suonare come una cosa del passato, non siamo nell’epoca dell’individualismo sfrenato?
Eppure i riferimenti al mondo di oggi, alle battaglie di oggi ci sono: si comincia con una testimonianza preziosa, il racconto del sud italia contadino negli anni dell’industrializzazione, all’inizio del consumismo. La domanda che il protagonista si fa riguarda la necessità del lavoro: perché bisogna lavorare? Per avere soldi per comprare le cose: le pizze, i jeans, la lambretta. “E allora scoprii subito una cosa fondamentale. Che per vestire bene per mangiare bene per vivere bene ci volevano i soldi. Tutta questa roba nuova che vedevo in città teneva un prezzo sopra. Dal giornale alla carne alle scarpe tutto teneva un prezzo sopra. Non era la frutta che stava sugli alberi e che noi in paese c’andavamo a prendere la sera. Non erano i pesci che stavano nel fiume e che noi c’andavamo a pescare. Non erano i vestiti che ci davano le madri che li facevano loro o che venivano da chissà dove. Pantaloni e scarpe che ci mettevamo senza neanche sapere di che colore erano perché ce ne fottevamo”
Per il nostro protagonista, il lavoro non è un modo di autorealizzazione, non lo associa alla sua personalità. Il lavoro è fatica e basta, e se bisogna farlo è solo per potersi procurare dei soldi per vivere.
E di questa affermazione trova conferma nella Fiat, nella catena di montaggio: negli anni ’60 il modello di lavoro nella grande industria prevede la catena di montaggio con l’utilizzo di una mano d’opera numerosa e poco specializzata. Il lavoro è ripetitivo, è faticoso, non dà nessuna soddisfazione intrinseca e i ritmi devono sempre aumentare: in questa fabbrica nasceranno le proteste e le rivolte del 1969, in modo autonomo e senza il diaframma sindacale.
A parte i facili paragoni con l’attualità della Fiat che può imporre le sue condizioni su un sindacato diviso e ricattabile con delocalizzazioni (chi trova giusto l’atteggiamento di Fiat si accomodi per qualche mese in catena a lavorare e poi ne riparliamo), la grande forza di questo libro è l’assunto politico ancora attuale: perché bisogna lavorare? Perché bisogna faticare, essere sfruttati per poter accedere a minime condizioni che permettono di vivere, quando le grandi ricchezze si basano sul sacrificio e sullo sfruttamento delle moltitudini?
Sono molti a dire che le risorse ci sono per dare la possibilità a tutti di vivere decentemente senza lavoro e senza sfruttamento e a chi dice che non ci sono pranzi gratis vorrei ricordare che qui si tratta di mangiare tutti e non di far abbuffare i pochi per affamare gli altri.
Come dice Balestrini nella postilla del 2003: “La vittoria del capitale è solo apparente….. E’ una questione epocale, quella della fine del lavoro subodinato, la forma di lavoro coatto che per poco più di due secoli ha permesso in occidente la nascita e lo sviluppo della civiltà industriale….. una nuova epoca attende l’umanità, liberata dal ricatto e dalla sofferenza del lavoro, che ruba e degrada il tempo della vita, dalla schiavitù del denaro, sempre più nelle mani di pochi, mentre esistono le possibilità reali per un benessere diffuso e generale.”
Per arrivare a questo la strada è ancora lunga e molte saranno le rivolte come quelle del ’69: ci sono già oggi e vengono frettolosamente archiviate come problemi di ordine pubblico.