E' un libro importante questo di Antonio Leotti: il mestiere più antico del mondo del titolo è quello del contadino e il libro parla della situazione dell'agricoltura in Italia raccontando l'esperienza dell'autore. E' meritorio che Fandango lo abbia pubblicato ma da un editore impegnato e attento come Fandango non ci si poteva aspettare di meno.
L'importanza del libro non è nel valore letterario dell'opera: Antonio Leotti racconta la sua storia, la sua vicenda personale e a volte, soprattutto nella prima parte, il racconto è un po' lento, ripetitivo.
Ma l'importanza sta da un'altra parte: questo libro ci racconta il mondo contadino diversamente da come il 99% dei non-contadini si immagina e questo diverso raccontare offre una possibilità di risveglio e di consapevolezza.
E' un libro autobiografico: la famiglia di Leotti è proprietaria di terre in Toscana, inizialmente un latifondo e poi un quantitativo sempre non trascurabile, 400 ettari. Nella prima parte del libro troviamo il rapporto fra Leotti bambino/ragazzo e la campagna, da una parte il suo amore verso una realtà agricola che a lui sembrava più vera di quella cittadina e dall'altra la precoce consapevolezza che comunque lui era il figlio dei proprietari terrieri e quindi non aveva "diritto" a mescolarsi ai figli dei contadini. L'autore per mille motivi si allontana dalla campagna e inizia una sua vita, anche soddisfacente dal punto di vista professionale: non è operaio in fabbrica o impiegato in ufficio, fa uno di quei lavori "fighi" come lo sceneggiatore per cinema e televisione. Ma ad un certo punto c'è un ripensamento, un domandarsi cosa si vuole fare veramente: c'è chi apre una libreria, c'è chi ritorna alla campagna. Dal 1994 Antonio Leotti inizia a gestire direttamente l'azienda agricola di famiglia. Questo succede dopo che per anni l'azienda è rimasta incolta a causa delle sovvenzioni comunitarie che pagavano affinchè la terra rimanesse non produttiva: una delle tante soluzioni scovate dall'economia per risolvere i problemi e che ne creano altri ben peggiori (vi viene in mente qualche altro caso recente?). Ma Leotti non aveva intenzione di lasciare l'azienda incolta per incassare gli aiuti comunitari, voleva un'azienda agricola viva, produttiva e quindi si mette all'opera: queste sono le pagine più belle, dove Leotti racconta le sue prime avventure, dove lui, da perfetto ignorante di agricoltura, oltre a comprare e leggere libri sull'argomento si mette a imparare, con costanza e grande umiltà, dai contadini che lavorano con lui. Viene in mente il Nikolaj di Guerra e Pace che, smesse le vesti da ussaro, diventa un bravissimo propritario terrerio perchè per prima cosa cerca di imparare dalle persone, dai suoi contadini, e dalla natura.
Queste sono le pagine più belle e mi spiace che non abbia raccontato altre avventure con i trattori o altri episodi di apprendimento agricolo o di successi di coltivazione. Sembra come non voglia restare troppo su quel primo periodo soddisfacente (non felice, è una emozione che non vuole ammettere); finirà in fretta, difatti, appena si renderà conto che la forbice fra prezzo del prodotto e costo di produzione si divaricava sempre di più: il prezzo a cui poteva vendere il suo grano era in perenne discesa, anno dopo anno, mentre i prodotti chimici necessari per mantenere un livello produttivo decente erano in continua ascesa. Margini ridotti all'osso, aziende agricole in perdita, disperazione finanziaria: questo è lo sfondo dove si collocano le ultime parti del libro. Ma, con grande sorpresa dell'autore, lui e gli altri nelle sue stesse condizioni, non lavorano solo per un fine economico (come la filosofia economica vorrebbe che noi tutti operassimo, appiattiti in questa ricerca di massimizzazione del profitto) ma perchè lavorare la terra dà senso.
Il libro non ha una conclusione, non c'è una fine, nè buona nè cattiva della storia: da pochissimo Leotti ha iniziato la riconversione dell'azienda agricola in biologica e, lo confessa, non lo ha fatto per fini etici ma prima di tutto per motivi economici, di sopravvivenza. Non sa però come andrà a finire.
Il libro non ha nemmeno un contenuto ideologico forte, non è nato su un'idea da dimostrare o su un progetto di società da realizzare, basta leggere le poche pagine che dedica alla natura, al fatto che l'ambiente agricolo, anche quello biologico, è quanto di più distante si possa pensare da un ambiente naturale, cioè di come si trova in natura: l'attività agricola, in quanto tale, modifica l'ambiente, è un intervento sommamente antropico.
E', semplicemente, il racconto di una vita agricola fatta da uno che contadino non lo è del tutto, almeno non è nato contadino: per questo ha dovuto imparare da uomo fatto i segreti dell'agricoltura e adesso cerca di parlare a noi, che contadini non siamo, del suo nuovo mondo, perchè questo mondo è in estremo pericolo, sta per essere abbandonato del tutto.