Dio odia il Giappone, scritto nel 2000
e rimasto inedito in tutto il mondo se non in Giappone, è scritto
bene. Coupland si serve del ritmo veloce, del tono divertente ed
ironico, delle parole, delle suggestioni, dei rimandi, delle
illustrazioni per raccontare in realtà qualcosa di così tetro che
fa boccheggiare. Nonostante le mille insegne luminose intermittenti.
Leggendolo si coglie subito l’atmosfera
che pervade tutto il romanzo, perché è la stessa cupola afosa che
si respira adesso in Italia. A raccontare gli anni dalla fine del
liceo all’entrata nel mondo del lavoro, è Hiro, il protagonista,
in prima persona, con il disincanto di chi ha ricevuto insegnamenti
che, per andare avanti, non contano più un fico secco. Hiro
sceglierà la sua strada, il suo modo di stare al mondo.
Anche se il libro non ne parla
direttamente, spinge a riflettere sul completo non senso di
perseverare percorrendo il mondo così come abbiamo fatto fino ad
ora. Economicamente, eticamente. Credo che la generazione di quelli
che, come me, sono nati nella metà degli anni Settanta abbia chiaro
in testa che è adesso che si deve scendere dalla macchina e
svoltare, continuando a piedi. Ineluttabilmente.
Io? Sono nato nel 1975 nella zona
nord di Tokyo. Non ho fratelli maggiori e ho una sorella, mia sorella
maggiore Moriko, che è nata nel 1970 ma ha una sensibilità così
differente dalla mia che avrebbe potuto benissimo essere del 1955.
Moriko è un clone della Burberry. Con questo non intendo sminuirla.
Se le chiedete di descriversi probabilmente vi comunicherà di sua
spontanea volontà e sin dalla prima frase che possiede un
esemplare di ogni articolo della Burberry. Se la Burberry producesse
assorbenti interni, Moriko farebbe scorta anche di quelli. […]
Credo che Moriko sia nata nell'ultima generazione che ha provato il
senso del dovere o del rispetto o del sacrificio e tutte quelle
storie giapponesi sull'armonia con cui ti lavano il cervello quando
rinunci alla tua vita con una firma alla Toyota. E quelli come me,
nati dopo il 1975? Lasciateci perdere. Ci riproduciamo, mangiamo e
sempre più spesso uccidiamo. Tutti i legami tra noi e chi ci ha
preceduto sono stati troncati. Eppure noi siamo una generazione.
Giappone, Tokyo, fine anni Novanta e
fine del mondo “conosciuto” per Hiro Tanaka and friends. Che cosa
fanno? Stanno in mezzo. Tra liceo ed università, tra università e
lavoro, tra isolamento e realtà e vanno ad abitare nel
soprannominato Bubble Palace, un palazzo che il padre di Tetsu non
riesce ad affittare, dove vivono gratis in cambio del loro lavoro
come custodi.
Tetsu, che era molto più intelligente di me, studiava economia all’Università di Tokyo, ma per entrambi lo studio era più che altro una farsa. Era molto più divertente portare di sopra le ragazze, usare i muri degli uffici come bersagli per le freccette, e consumare quasi solo calorie provenienti dal negozio di alimentari al piano terra.
La loro, la nostra, prendendomi la
libertà di definirla, è una Generazione MA. Ma è una parola usata
nel giapponese in espressioni colloquiali e settoriali. È “qualcosa”
di lieve, ma fondamentale, tra: un tempo tra due eventi, uno spazio
tra cose, una relazione tra due persone, nel quotidiano,
nell’estetica, nell'arte, nell’architettura, nel teatro,
nell’arte marziale. In italiano il ma mette in contrapposizione due
frasi o due termini di una stessa frase. Ho pensato che in ciascuna
delle due lingue il significato calzi. In una delle interviste, circa
il libro, Coupland dice che è come se il Giappone avesse raggiunto
una specie di nirvana secolare, oltre il quale non c'è nulla, e
fosse imploso. E allora? E allora il fanatismo religioso, l’attentato
del 1995 alla metropolitana di Tokyo con il Sarin ed il fiorire di
sette religiose per distruggere quel mondo conosciuto.
Questo lo toccherà molto da vicino.
Naomi, la sorella del suo migliore amico Tetsu, nonché ragazza di
cui s’innamora non corrisposto, perderà un polmone nell’attentato
in metropolitana; i genitori aderiranno ad una setta religiosa, il
cui nome sembra uno slogan pubblicitario, Pura Fede di Prima Scelta,
per rendere il Giappone più bianco che più bianco non si può, con
tutte le implicazioni del colore.
E allora, finita la comodità del
conformismo ed oltre le vette più alte del consumismo i ragazzi e le
ragazze di questa non-generazione, come mattoncini di lego mutante
non s’incastrano più e rimangono in mezzo. Individui che tendono
all’uno ma con il bisogno di ritrovare gli altri. E per fare questo
alcuni se ne vanno, per un po’, per sempre. I personaggi del libro
vanno tutti nell’economicissimo Canada, per crisi mistica, per
amore, per ritrovare una persona a sua volta fuggita là.
La famiglia di Hiro è una normale,
ancora una volta con tutte le implicazioni del termine, famiglia
giapponese. Oltre alla sorella che ha votato la propria vita alla
Burberry, ci sono mamma e papà.
Analogamente, sognavo che mia madre avesse un appartamento segreto, a Hibiya per esempio, dove un pezzo grosso della yakuza la tratteneva come schiava sessuale part time e che tornasse a casa nostra a Urawa solo dopo essere stata imbottita dei migliori oppiacei afgani. Quello stato di offuscamento l’avrebbe aiutata a contrastare la mancanza di gioia e di sesso nel suo matrimonio combinato. Almeno papà aveva un posto dove andare al mattino; la mamma non aveva proprio niente.
Ma, come si dice, la fantasia è la
realtà più uno.
Sin da bambino Hiro si taglia fuori.
D’altra parte il Giappone è una grande famiglia felice, no?
Quindi uno non è mai solo.[…] Quella sera avevo fatto i capricci (c’era un pesce strano per cena, credo) e mi avevano spedito in camera mia. Proprio fuori dalla porta c’era la borsa di mia madre, così me la portai in camera e la svuotai completamente, disponendo tutto (rossetto, fazzoletti di carta, un romanzo rosa tascabile, le chiavi e così via) per terra, in file ordinate. Mi sembrava avesse un aspetto carino, come una teca al museo di storia naturale, e mi sentii fiero. Poi andai a letto, giocai un po’ con la plastilina e mi addormentai.
Mi ricordo che di punto in bianco mi svegliai mentre mi trascinavano nel corridoio per il polsino della camicia, attraverso il daidokoro, depositandomi infine sui gradini dell’ingresso, dove scoppiai a piangere appena sentii la porta richiudersi alle mie spalle. […] chiudere i bambini fuori casa è la tortura per eccellenza che i giapponesi pervertiti del cazzo usano per costringere i loro figli a uniformarsi. Su di me quell’esclusione ebbe l’effetto opposto. Mi resi conto che se uno si esclude per primo dalla società, allora tutta la tortura mentale che la società ti getta addosso viene annullata. E capirlo mi calmò in modo incredibile. Smisi di piangere, mi incamminai verso una piccola siepe e mi addormentai […]. Mia madre uscì per «riaccogliermi» in casa, e si aspettava di trovarmi umile e remissivo, e invece ero lì che dormivo. In quel preciso istante mia madre capì che non ero tagliato per essere un bravo cittadino, e negli anni a venire non mancò mai di ricordarmelo.
Può non stupire che Hiro cerchi la
tragedia; stupisce sicuramente il modo.
Il tipo di tragedia che cercavo di solito (e che ho continuato a cercare per più di un decennio) me la procuravo lanciandomi contro le vetrine. Proprio così. Sceglievo una porta a vetri bella grande al centro commerciale Isetan o al Parco, oppure una ghiotta portafinestra in piscina, e usavo tutta la mia energia per sbattermici contro. Spaventavo a morte i miei amici e mi facevo cacciare da tutti i negozi di Tokyo, ma, visto che avevo la massa corporea di un passerotto […], quelle botte non provocavano mai conseguenze. Eppure in testa avevo sempre l’immagine di me che mi schiantavo tra i prismi di vetro grandi come perle, al rallentatore come in un documentario, e attraversavo lo specchio da una parte all’altra. Se mi fosse riuscito uno di quei blitz, sarei diventato «Il ragazzo che faceva esplodere le vetrine». Uno che faceva cose del generale avrebbe avuto legami soprannaturali con il potere. Uno che faceva cose del genere sarebbe stato uno che sapeva cose che gli altri non sapevano. O almeno, così credevo.
Hiro darà l’addio al suo
personalissimo tipo di tragedia in Canada e, proprio quando deciderà
di buttarsi per l’ultima volta contro una vetrina canadese, ben
diversa da quelle giapponesi, scoprirà di non sapere un mucchio di
cose.
In Giappone il futuro non è mai lontano, allora Hiro abbozza un’autobiografia, scrivendo al proprio Caro clone per prevenirlo, per rassicurarlo, per rendergli la vita un po’ più semplice.
Così ci saluta Hiro. Il grassetto è
mio poiché la frase è fortissima.
Io continuo a vendere telefoni, a volte per strada e altre volte
in qualche chiosco in giro per la città. Se ci penso troppo mi viene
il mal di mare. È una scelta importante della mia vita fare qualcosa
che tecnicamente sembra di poco conto, ma che in realtà non lo è.
Sto facendo qualcosa di grande. Aspetterò la fine della
sostenibilità. Per il momento non faccio progressi, ma ci vuole
un sacco di impegno per rifiutare le cose che ti hanno insegnato a
venerare. Ci vuole coraggio per dire di no, a costo di contrastare
gli standard consolidati.
Perché Dio odierà il Giappone?
courtesy by Sabina Rizzardi