UNA TRACCIA DEL MIO AMORE di Douglas A. Martin

Diciannove, vent'anni, mai abbastanza, più o meno metà anni Novanta, il diritto ai sentimenti e al desiderio, tanto andarsene, da chi se n'è andato senza tornare, da chi rimane malamente, da una nonfamiglia, che abita in una noncasa, in un nonluogo d'America, poi Georgia, poi New York, poi mondo, essere desiderato, essere insicuro, alcune fotografie, tanta stoffa, sensazione d'infertilità e (volere) meno distanza e di più, di più, di più: tempo, amore, attenzione.
Nella prefazione del libro, della collana Tracce di Indiana, Marco Mancassola parla di una forma simile a quella del diario, un proto-romanzo e di archeologia emotiva.

Poi arriva Mike.
Mike, il mio amore, è un uomo affascinante, più grande, ha il fisico asciutto, da nuotatore. Mike è un uomo affermato, desiderato, ammirato. Mike è reale, esiste davvero anche quando non esiste più, è famoso perché è una rockstar mondiale. È la persona, tra i trenta e i quaranta, di cui il protagonista di questa storia autobiografica s'innamora a vent'anni, e con cui ha una relazione. 
Scrittura asciutta, frasi brevi, scrittura svestita, da camera, sempre cauta, mai urlata, scrittura (non più o ancora) a disagio. Forse, per ricordare a se stesso che il suo amore è successo davvero. Spesso mi ero sottovalutato. Lui era la prova di cosa potevo ottenere. Una storia d'amore tra e come tutte. Sicuramente non è necessario incontrare una star, i nostri amori brillano di luce propria ai nostri occhi, per ritrovarsi a fare i conti con la realtà. Oggi, ad esempio, sfoggiando uno spagnolo caliente, ho scritto questo sms: ¡Madre mia, como te quiero hoy! Risposta: Oggi non esisto. Sì, forse si scrive per ricordare a noi stessi che esistiamo!

Poi Mike esce dallo schermo, e dal SOGNO.
Entra, ovunque. Ad un certo punto basta.
You might have laughed if I told you (it's pulling me apart)
You might have hidden a frown (change)
You might have succeeded in changing me (it's pulling me apart)
I might have been turned around (change)
It's easier to leave than to be left behind
Leaving was never my proud


Ci sono due foto di famiglia, nella casa in cui non vivremo mai come una famiglia. La casa che loro comprano quando io e mia sorella ce ne andiamo.
Eccoci qua, tutti e quattro insieme in un momento da foto. Due volte. Lui non è mio padre. Non ci sono foto di mio padre, in casa sua, non una. Nessuna messa da parte per un giorno futuro. Nessun promemoria da scorrere, per ricordare che c'è stato.
La sua immagine viene strappata, mentre mia madre piange, in un momento di forza. Un giorno torna a casa dal lavoro all'ospedale, decisa a estirparlo completamente.

Io e mia sorella la guardiamo piangere, senza capire come sia possibile desiderare che qualcuno scompaia.
Il patrigno non voleva figli suoi, disse a mia madre. Aveva noi.
Mamma deve cominciare a difenderci al lavoro, suo figlio frocio e quella figlia bianca che se ne va in giro coi ragazzi neri.

Non si rende conto che stiamo facendo quello che lei [la loro madre] ha fatto, e non quello che ha detto: andare contro la logica malata della madre, una logica che non ci permette di sopravvivere. [...] Io a mia madre non voglio nascondere nulla. Deve sapere che non potrà cambiare i miei desideri. Il desiderio è tutto quello che ho. Tutto quello a cui mi posso aggrappare. [...] Continuo a mettere i soldi da parte, mentre guardo i mesi volar via. Arriva il giorno. E il luogo in cui sono vissuto, quello e tutto il resto, finalmente hanno fine, diventano passato. Sono più vicino a qualcosa, qualunqure cosa sia.

Comincio a conoscere gente che mia madre non incontrerà mai, che non vedrà. di cui non saprà nulla. Frequento l'università della Georgia. Vivo nello studentato dei dottorandi, anche se sono solo una matricola. Mia madre all'università non c'è andata, e non voleva che frequentassi questa anzichè la più economica università pubblica. L'università pubblica era più vicina. Puoi prendere la stessa laurea. Io ho altri progetti. Scelgo come guida una stella. So che riposa da queste parti, defilato. [...] Nello studentato, sono ancora troppo inquieto. Non riesco a dormire. [...] Ho una tesina da scrivere. Scivolo verso l'atrio nel seminterrato [...]. 
Lo vedo in televisione. Viene trasportato al di sopra di una folla, da mani che sorreggono il suo corpo. Vedo tracce dei suoi peli nascosti, lì dove i jeans larghi possono scivolare, l'elastico allentato dei comodi boxer a righe bianche, nere e grigie, la sua pelle. Attendo un ideale. Quel momento. Nell'istante perfetto, sollevo la mano per sfiorare lo schermo di vetro convesso come se fosse carne, poi ancora, quando sono a metà della mia tesina.
Mi basta vederlo. È allora che posso scrivere. 
Dormo. Comincio a fare sogni in cui sono un attore famoso che potrebbe amare. O un bellissimo ragazzo indolente sotto mani confuse che lo dirigono accompagnadolo.

Uscendo dal pesante portone di ferro, vago nel buio del campus. [...] Conosco il nome della via. Faccio due più due. Nel campus c'è una strada che esce dalla pagina della cartina. Porta a un'altra strada, che sfocia in quella dove ho sentito dire che vive. La sua casa. Seguo l'indizio, m'incammino fuori dal campus. In una notte che è già quasi giorno, cerco di capire quale casa potrebbe essere la sua. Quale abbia l'aspetto che la sua potrebbe avere. Forse lui è lì.
Non trovo il retro di una casa di cui sospetto, persa in un'altra fila di case girate in senso opposto. 
Vedo però le luci, una veranda che sono certo sia la sua.
Così come la immagino in una canzone, rossa.

Nel mesetto di vacanze natalizie, torno a lavorare nel negozio di dischi. Compro un cofanetto di legno con il suo nome inciso sopra, confezione speciale.
Il disco che c'è dentro, la sua canzone. Sospiro. Cerco tracce di lui in televisione. Il suo viso, un'immagine nel deserto, miraggio registrato. Trasmesso. La sua mano, tesa a cercarmi. Come se fosse un segno e mi dicesse di prenderla, toccarla. Sono in ginocchio per terra davanti a lui. Indossa un costume da cowboy. Le luci si risistemano, plasmando la sua immagine. Ed entriamo in contatto. Le nostre mani s'incontrano per caso. Lì, nel fotogramma successivo. Pelle contro immagine registrata.
La sua contro la mia. Poi lui sorride. Non riesco a credere che sia successo davvero. 
  
Esco a ballare con altri ragazzi.
Potrei sbagliarmi, di colpo penso di essere qualcosa perché gli uomini si accorgono di me. Vado in un bar dove la gente balla e mi sento tutti gli occhi addosso, ho una faccia giovane. Vent'anni, diciannove.
Quanto sono impressionabile. Mi chiedo chi fingere di essere, casomai lui guardasse da questa parte. È facile cercare di assomigliare ai ragazzi che vedo sulle riviste. E poi, se non parlo, su di me si può proiettare molto. Posso diventare qualcunque cosa lui voglia, interpretare un ruolo. Imparo a toccare ciascuno nel modo in cui desidera. 

Lavoro sparecchiando tavoli in un locale, in pieno centro, aperto tutta la notte. È la mattina prima che lui vada in Florida per un funerale. Così mi hanno detto.
Gli amici lo accompagnano in macchina. Ci andrà guidando. Provo a salutarlo con un cenno dalla vetrina, anche se ancora non sa come mi chiamo.
Forse mi vede sulla porta, mentre lo guardo con in mano uno straccio del bar.
Porta un cappello. Ci sono vestiti che ricordo, ma solo quelli che aveva la sera in cui mi chiese se volevo invitarlo a entrare.


Ho letto il libro in un paio d'ore. Il racconto dei sentimenti, quando espressi in modo non scontato, prende.

courtesy by Sabina Rizzardi


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