Pur non avendo a che fare con i libri nè con le librerie, pubblico volentieri questa lettera di Gianfranco Bettin sul blog della libreria. E' un piccolo contributo di solidarietà per la situazione processuale che lo vede coinvolto, con un rischio concreto e pesante, solo per aver fatto domande a nome di tutti noi.
In attesa di sentenza. Una storia radioattiva - Lettera di Gianfranco Bettin
Nei prossimi giorni giungerĂ a
sentenza a Roma un processo che dura da anni, che riguarda una
storia importante che forse molti hanno dimenticato e di cui magari
non importa quasi piĂ¹ niente a nessuno, ma che potrebbe pesare molto
sulla mia vita così come, in verità , sta già accadendo da tempo.
E’ un processo che, a latere, ma non tanto, dell’argomento
scatenante, per le modalità in cui si è svolto, chiama in causa
anche la natura stessa della rappresentanza democratica e la
possibilità , attraverso atti istituzionali così come attraverso la
libera stampa, di porre domande scomode, di cercare la veritĂ
anche su fatti scabrosi.
E’ una storia che ri-comincia alcuni
anni fa, nel 2005, ma che rinvia a qualcosa che è accaduto in tempi
piĂ¹ lontani, nel 1990 a Porto Marghera, e che oggi sta per giungere
a un primo epilogo, dopo un lungo processo presso il tribunale di
Roma, nel quale sono coinvolto come imputato. Rischio di essere
condannato a pagare un milione di euro piĂ¹ le spese legali, somma
che (perfino in dimensioni molto minori di queste) naturalmente non
possiedo, con tutte le conseguenze del caso a mio carico. A scanso di
equivoci, anticipo subito che lo scopo di questa mia nota è solo di
far conoscere una storia che ha implicazioni pesanti di natura
generale, non solo per me. Per quanto riguarda la mia vita, in ogni
caso, cercherĂ² di arrangiarmi. Qui vi chiedo soltanto, per favore,
di leggere con un po’ di attenzione il racconto che segue.
Nel febbraio del 2005 a firma
del giornalista Riccardo Bocca il settimanale “L’Espresso”, nel
quadro di una piĂ¹ vasta inchiesta che si occupava tra l’altro
delle piste seguite da Ilaria Alpi prima di essere assassinata
insieme a Miran Hrovatin a Mogadiscio nel 1994, pubblicĂ² un articolo
su un traffico di rifiuti tossici e nocivi. In particolare si occupĂ²
del carico trasportato dalla motonave “Jolly Rosso” che nel
1989 il governo italiano aveva inviato a Beirut per recuperare
circa 2 mila tonnellate di rifiuti tossici, nell’impianto SG31 della
Monteco nell’area del petrolchimico,
contenute in circa
10 mila fusti, scaricate tempo prima da un’azienda lombarda (la
Jelly Wax), secondo una prassi che aveva visto per anni molte aziende
italiane smaltire, spesso con complicitĂ mafiose e perfino di
apparati dello Stato, rifiuti tossici in altri paesi, oppure
affondandoli in mare (dopo averli a lungo smaltiti sul territorio
nazionale in discariche abusive, avvelenando buona parte di certe
regioni). Rientrata in Italia, la Jolly Rosso rimase dapprima
all’ancora in rada e poi entrĂ² nel porto di La Spezia in attesa
che si decidesse come e dove smaltirne il carico tossico, cosa che
infine fu stabilito dovesse avvenire in alcuni siti industriali, tra
i quali Porto Marghera, precisamente
E’ a questo punto che la storia di
quei rifiuti diventa anche una nostra storia, e infine una storia
mia.
All’epoca ero consigliere di
quartiere a Marghera e, insieme ai Verdi e agli ambientalisti della
cittĂ , in diretto contatto con operai delle fabbriche chimiche,
partecipai attivamente alla mobilitazione per conoscere l’esatta
composizione di quei rifiuti. Dall’interno della fabbrica, infatti,
ci avevano segnalato alcune inquietanti anomalie a proposito dei
fusti trasferiti qui nell’aprile 1989 dalla “Jolly Rosso”
che, tra l’altro, tendevano a gonfiarsi. Sempre da dentro la
fabbrica ci venne detto che, nei rifiuti, sarebbe stato presente
anche una certa quantitĂ di URANIO. Malgrado le proteste -
compresa una petizione all’Ulss veneziana (allora la n.36)
sottoscritta da 50 operai del petrolchimico che denunciava
“l’insostenibile situazione creatasi in seguito alle continue
emissioni di fumi e per altre sostanze di origine ignota” - a
partire dall’8 novembre i rifiuti tossici vennero bruciati
nell’impianto SG31.
Di fronte alle proteste, il direttore
del servizio di Igiene pubblica dell’Ulss 36 reagì contestando le
valutazioni espresse dagli operai sottoscrittori della petizione e
dagli ambientalisti e, anzi, presentĂ² un esposto alla Procura di
Venezia perchĂ© si sarebbe contribuito a “diffondere
disinformazione per creare allarme tra la popolazione”. L’esposto
fu archiviato.
Di questa storia si tornĂ² a parlare,
appunto, nel febbraio 2005 quando “L’Espresso”, ricordando
quella vicenda, citĂ² una relazione dell’Ulss 36 datata 28
febbraio 1990 nella quale, analizzando la condensa dei fumi
usciti dal forno SG31 in due momenti diversi, 19 gennaio e il 7
febbraio 1990, si conferma la presenza di uranio. L’Espresso
riportĂ² anche il commento di Gianni Mattioli, allora docente
all’UniversitĂ di Roma, il quale, sottolineando come “le
concentrazioni rilevate dall’Ulss 36 sono certamente preoccupanti e
superano le percentuali allora fissate per legge”, anche
considerando che i fumi del camino “prima di toccare terra
subiscono una significativa diluizione”, sostenne che “nessuno
puĂ² negare che sia stata smaltita una sostanza radioattiva. Anzi, è
necessario aprire un’inchiesta per capire che tipo di uranio fosse,
visto che l’Ulss non lo indica. Si trattava di combustibile
esaurito di reattori? O di uranio impoverito? O, ancora, di
combustibile nucleare?”
Nel febbraio 2005 ero Prosindaco della
cittĂ (lo rimasi fino all’aprile di quell’anno) e consigliere
regionale (lo sarei rimasto fino al 2010). In questa duplice veste
chiesi a chi di dovere spiegazioni su tale vicenda, di cui come si è
visto mi ero giĂ occupato molti anni prima, alla luce degli elementi
nuovi che L’Espresso aveva pubblicato. Presentai, dunque,
un’interrogazione al presidente della giunta regionale del
Veneto, nella quale, dopo aver sommariamente riassunto la
vicenda, chiedevo alla giunta “se è a conoscenza dei fatti;
qual è l’entitĂ e la natura dell’inquinamento radioattivo, se
intende rendere pubblico il referto dell’Ulss tenuto segreto per 15
anni”.
La pubblicazione dell’articolo e la
mia interrogazione (oltre a una, analoga, presentata alla camera dei
deputati dall’allora parlamentare Luana Zanella) provocarono
l’immediata reazione dell’ex responsabile del servizio di igiene
pubblica dell’Ulss, il dott. Corrado Clini, che nel
frattempo, dall’inizio del 1990 si era trasferito a Roma al
Ministero dell’Ambiente, del quale diventerĂ e resterĂ a lungo
Direttore generale (e, di recente, com’è noto, anche ministro,
fino all’aprile 2013). Clini contestĂ² in toto, con dichiarazioni
riprese dalla stampa e dagli altri media, la ricostruzione
dell’Espresso e contro il settimanale e contro gli autori delle due
interrogazioni in sede regionale e parlamentare, il sottoscritto e
Luana Zanella, presentĂ² querela in sede civile presso il
tribunale di Roma.
Al dottor Clini, sia il
sottoscritto sia Luana Zanella, risposero, con un comunicato
ufficiale, che nelle interrogazioni in Regione e in Parlamento il suo
nome veniva citato solo a proposito delle critiche che egli aveva
rivolto, all’epoca dei fatti, agli ambientalisti e che nessuna
insinuazione o affermazione esplicita era rivolta nei suoi confronti
e ogni riferimento a fatti specifici era posto al condizionale,
quando non supportato da precisi referti e che dunque il solo fine
dei nostri atti istituzionali era la piena conoscenza di quanto
avvenuto intorno alla vicenda Jolly Rosso, cosa in seguito ribadita
in diverse occasioni.
Alla vigilia del
processo, il parlamento tutelĂ², come da prassi, l’on. Zanella
rifiutando l’autorizzazione a procedere in quanto l’atto
istituzionale - l’interrogazione - è prerogativa inviolabile di
deputati e senatori. Sulla stessa linea si mosse la giunta
regionale di allora (2005 - 2010) presieduta da Giancarlo Galan, che
incaricĂ² il prof. Mario Bertolissi, docente di Diritto
costituzionale all’UniversitĂ di Padova, di stilare un ricorso per
conflitto di attribuzione presso la Corte Costituzionale la
quale, dopo alcuni anni nel corso dei quali il processo rimase
sospeso presso il Tribunale di Roma, stabilì che la Regione
dovesse porre la questione all’apertura effettiva del processo.
Si giunse quindi, nel
2010, all’apertura del processo nel quale, come imputati,
eravamo rimasti soltanto il sottoscritto e il giornalista Riccardo
Bocca autore del servizio pubblicato dall’Espresso. Nel frattempo
era mutata la giunta regionale, ora presieduta da Luca Zaia, e il
sottoscritto, non piĂ¹ consigliere regionale, provvide a segnalare
alla Regione la necessitĂ di procedere secondo l’indicazione della
Corte Costituzionale e secondo la stessa prassi seguita dalla Regione
da sempre, volta a tutelare il diritto dei suo eletti a porre,
attraverso interpellanze, interrogazioni e altri atti ispettivi,
qualunque domanda si ritenga necessaria per conoscere una data
situazione e un dato problema.
La Regione, tuttavia,
non ha mai provveduto a sollevare il conflitto di attribuzione, non
ha mai difeso, in questo processo, il diritto dei propri
rappresentanti - che sono, nella regione, rappresentanti del popolo
esattamente come i parlamentari lo sono a livello nazionale - a
essere tutelati nelle proprie prerogative. Le quali non sono
affatto dei privilegi ma rappresentano la garanzia che, in nome
dei cittadini tutti, si possano porre anche le domande piĂ¹ scomode,
anche nei confronti di chi è potente, persona o istituzione che sia.
La Regione, a differenza
di come si è sempre comportata in passato, ha lasciato aprire il
processo, lo la lasciato continuare e infine chiudere, senza muovere
un dito. Creando, così, un precedente pericolosissimo sia sul
piano istituzionale e formale sia su quello sostanziale. Se passa
il principio che si puĂ² querelare un’interrogazione, un atto
ispettivo (insieme alle dichiarazioni che lo illustrano), si crea un
vulnus letale nella rappresentanza e nei suoi diritti e poteri.
Ignoro il motivo di questa scelta: si puĂ² pensare a sciatteria
oppure a precisa volontĂ politica di discriminare il sottoscritto o
ad altri motivi ancora. L’effetto è che comunque viene minata
la pienezza del mandato istituzionale e che uno strumento
indispensabile per l’accertamento delle veritĂ viene svuotato.
Non ho niente da dire
sul dott. Corrado Clini. Egli - assistito dal grande studio
legale che presta anche consulenza giuridica al ministero per
l’Ambiente - esercita una possibilitĂ che l’attuale normativa
lascia a chiunque, specie se potente, scambi le critiche per reati e
dunque voglia e possa tenerti per anni in un processo, costoso,
lungo, scomodo, scoraggiante per chiunque non disponga di mezzi per
sostenere questa pesante prova. E’ la legge che andrebbe
cambiata, come da tempo sostengono in molti, dall’Associazione art.
21 a giornalisti e operatori dell’informazione ad associazioni e
attivisti che si vedono opporre querele milionarie e processi
insostenibili per modi e tempi. Ed è la Regione del Veneto a
dover essere indicata come un ente che non rispetta sé stesso né i
propri esponenti, che non ha avuto in questo caso la dignitĂ di
rivendicare il proprio ruolo non certo a difesa di un privilegio
bensì a tutela del diritto di tutti i cittadini alla piena e
inviolabile rappresentanza.
Ora, infine, sto
aspettando la sentenza, che dovrebbe giungere a giorni, se non a ore.
L’aspetto con un carico di vera angoscia determinato sia dal
rischio concreto - pagare una cifra esorbitante, che non possiedo, e
restare magari per altri anni inchiodato a un processo che anche in
caso di assoluzione continuerebbe in Appello e in Cassazione, con
altre spese e altre complicazioni, e con rischi immutati - sia dalla
prospettiva di veder dissolversi, per l’ignavia o a causa della
complicitĂ attiva della Regione Veneto, forme consolidate di tutela
per chi, per ruolo istituzionale (come i consiglieri o gli
amministratori) o per attivitĂ professionale (come i giornalisti),
ha il diritto e il dovere di porre anche le domande piĂ¹ scomode, di
continuare a cercare la veritĂ su vicende in cui siano in
gioco l’interesse pubblico e il diritto a sapere di tutti i
cittadini.
Vi ringrazio
dell’attenzione
Gianfranco Bettin
Venezia, giugno 2013