Il comandante del fiume di Ubah Cristina Ali Farah

... e io vedo le parole in fila dentro la testa, le sento e le vedo tutte, scalciano e prendono forma come noci, e io spingo con la fronte e con gli occhi per farle passare. Le parole sono dure, mi tagliano la testa, come quando fa caldo e bevi qualcosa di gelido: sento una fitta agli occhi e riprendo fiato. Ma anche così il dolore non smette, allora ricomincio a spingere con forza ed ecco che sento le parole venirmi alla gola e tocco la loro forma con la lingua. Spingo l'aria fuori e le parole fuoriescono intere dalla mia bocca.

Una scena da parto, sta per nascere una nuova lingua in Yabar, il protagonista di questa dolce e aspra storia, sta per iniziare a parlare in somalo, la lingua di sua madre e di suo padre, lui che dai tre anni ha vissuto a Roma e che il somalo l'ha solo sentito ma mai parlato.
Ho scelto questa scena perchè è bella, è centrale nel percorso di sviluppo, di autocoscienza e di formazione del protagonista, perchè ben simboleggia la difficoltà di Yabar, di tutte le persone/ragazzi come lui e perchè racconta l'urgenza che sta dietro a questo libro: chi è fra due paesi, fra due culture, come i somali che sono nati e cresciuti in Italia, hanno delle domande di più a cui rispondere, delle questioni in più da risolvere rispetto a chi nasce e cresce in Italia da genitori italiani con la pelle chiara.
Quali saranno mai queste domande? Il libro ci viene in aiuto con due esempi concreti e lampanti: Yabar, cresciuto a Roma, con accento romano e con la pelle scura, è in autobus, da solo, vicino all'autista e quando arriva alla sua fermata domanda di aprire la porta davanti. La risposta dell'autista io l'ho sentita già varie volte, anche qui a Venezia: "Quante volte ve lo devo dire che si scende dalla porta centrale?". Yabar in questo momento, di fronte all'autista e a tutta la gente dell'autobus, è semplicemente un nero e come tale accomunato a tutti gli altri neri, africani, mussulmani e chissenefrega se ci sono differenze fra loro.
Poi c'è ancor
a Yabar, vicino ad un centro sociale, gli si avvicina un altro ragazzo dalle "mani nere"  e gli domanda "Tutto bene, fratello?". La risposta di Yabar, ragazzo arrabbiato e a cui va stretta la definizione che gli altri danno semplicemente guardandolo, è "perchè mi chiami fratello se manco mi conosci?".
Lo dice anche l'incipit del libro:
Se qualcuno pensa che mi metterò a recitare il mea culpa si sbaglia di grosso. La gente si fa un sacco di idee quando mi vede: da dove vengo, chi sono i miei genitori, in che casa vivo, se vado bene a scuola. Insomma, un bel quadretto preconfezionato. Ma, dico io, una storia non si può cogliere al primo sguardo, bisogna armarsi di pazienza e mettersi in ascolto. Riconoscere, per esempio, che sono le nostre scelte a mostrare di che pasta siamo fatti.

Io mi sono armato di pazienza e mi sono messo a leggere la storia di Yabar, di sua mamma somala, donna indipendente che ha saputo difendere le sue scelte e pagarle di persona, di sua padre che se ne è andato per combattere una guerra, della sua zia e sorellina acquisita, dei suoi amici: il libro è bello, racconta una storia di amicizia e di amore, di forti figure femminili e di ragazzi che sanno crescere perchè hanno il coraggio di affrontare anche il male.

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